Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Quaresima, Forlimpopoli
Il prossimo lunedì 11 marzo, finirà
l’ultima luna invernale. Una luna vecchia, che segna la fine dell’inverno e
sarà sostituita fra qualche giorno dalla
luna nuova di primavera, che possiamo immaginare giovane e
ridente. Nell’antica Roma questo momento di passaggio dall’inverno alla
primavera, che nel calendario arcaico era anche il passaggio da un anno all’altro,
veniva festeggiato verso la metà del mese, alle idi di marzo,
che originariamente quando il
calendario era lunare, cadeva al plenilunio.
Lo si festeggiava con un’allegra usanza: al mattino la folla si avviava verso un bosco sacro alla dea Anna Perenna, al primo miglio della via Flaminia, nei pressi del ponte Milvio. Era una scampagnata fuori porta: ci si accampava sui prati coperti di margherite, si piantavano tende e si costruivano rustiche capanne con fronde e rami. Racconta Ovidio nei “Fasti”:
«Li
scalda il sole e il vino; e ognuno si augura
tanti anni quanti bicchieri
trinca, e li conta bevendo. Cantano anche
canzoni imparate a teatro
gesticolando come attori e intrecciando
rustiche danze, e l’azzimata amica
danza con la chioma scomposta. Al ritorno barcollano mentre i passanti
ridendo esclamano: -come sono felici!».
Ma chi era in realtà Anna Perenna? Alcuni studiosi sostengono che essa fosse originariamente una dea etrusca che presiedeva alla crescita degli esseri viventi, ma, come scrive Alfredo Cattabiani nel suo “Calendario” (Mondadori), è stato Ovidio a metterci sulla buona strada affermando che la misteriosa dea era «la Luna che l’anno completa con i mesi».
E come affermava Ovidio, la festa in suo onore aveva lo scopo di propiziarsi questa divinità dallo strano nome, Anna Perenna: perché in latino il verbo “annare” significava “introdurre nel nuovo anno” e “perannare” “accompagnare per tutto l’anno”. Sicché Anna Perenna era la Luna nuova, colei che introduceva nel nuovo anno i Romani e li accompagnava con le sue fasi per tutti i dodici mesi. Era insomma l’immagine visibile della Grande Madre celeste che con la sua luce abbracciava amorevolmente le creature terrestri nutrendole e proteggendole.
D’altronde, afferma Cattabiani, se è vero che Anna, derivando dal verbo “annare”, è la personificazione femminile dell’anno, in sanscrito, un’altra lingua indo-europea, quello stesso nome è l’essenza vitale del cosmo, analoga alle acque che a loro volta sono apparentate alla Luna: di “Anna”, dicono gli induisti, “ogni vita in terra è materiata e sostenuta e da essa assorbita”. E perciò la dea indù Annapurna è la luce che sazia ogni essere.
E forse in quella “Luce” risiede la spiegazione di un misterioso detto che riguardano questo mese: “Far lume a marzo”. Si tratta di un’antica usanza contadina: negli ultimi giorni di febbraio e nei primi di marzo si accendono nei campi, all’imbrunire, dei grandi fuochi: si bruciano le erbe secche dell’inverno, insieme con i tralci della vite tagliati durante la potatura e ora secchi. La cenere servirà a concimare i campi. Ma non occorre dimenticare che una volta, proprio a primi di marzo, per simboleggiare la nascita del nuovo anno, le Vestali accendevano il nuovo fuoco nel tempio di Vesta, la dea della Terra, la Nutrice.
Su Anna Perenna fiorirono poi varie leggende dove appariva di volta in volta o come una vecchia rugosa e benefica oppure come una fanciulla, una ninfa. Quelle sue immagini che parrebbero contraddittorie, simboleggiano in realtà la Luna Madre Natura nei due volti: di giovinetta, quando è preposta all’inizio dell’anno, e di vecchia, quando lo conclude. Vecchia, come la buona Befana oppure come la scarna Quaresima, ambedue bruciate o segate per propiziare la nuova annata agricola.
Un’altra Madre Natura è infatti la Vecchia di Mezzaquaresima che in questi giorni e fino al 18 marzo, percorre sopra un carro le vie di Forlimpopoli nelle sembianze di un pupazzo gigantesco dalla faccia di vecchia grinzosa e rugosa, i capelli di stoppa e una cuffia in capo. In mano tiene una rocca per filare e porta appese al collo sfilze di salsicce, ciambelle, dolci e frutta fresca.
Il carro è accompagnato da un corteo di maschere che lanciano sulla folla coriandoli e confetti, come in una sorta di ritorno al Carnevale. Quando il corteo si ferma sulla piazza principale, si sega il pupazzo da cui esce una ragazza che distribuisce doni contenuti nel simulacro: giocattoli palloni, dolciumi, frutta e leccornie varie sono lanciati alla folla che si accalca per impadronirsi di qualche pezzo.
Le origini della “Festa di Segavecchia” di Forlimpopoli, si perdono nella storia: ci sono documenti che ne attestano la presenza già nel 1300, ma le radici sembrano ancora più antiche e potrebbero risalire agli antichi riti celtici del ciclo vita-morte-vita. Si tratta di una delle tante feste dell’Italia, soprattutto settentrionale, in cui si sega o si brucia un pupazzo a metà della Quaresima, come ad esempio a Cotignola, dove domenica prossima 10 marzo alle ore 17 ci sarà in piazza la lettura della sentenza di condanna a morte della Quaresima e il rogo della Segavecchia.
Anche a Treviso e a Tambre, in provincia di Belluno, “se brusa la veccia”, mentre a Bergamo si accende “Il rogo della vecchia”. In alcune località la Vecchia muore il giovedì di Mezzaquaresima, come a Manerba, sul Garda, dove ieri sera è stata bruciata al grido di “Brüsom la Vecia!”.
Il rito di bruciare o segare la Vecchia a metà del periodo quaresimale, un rito propiziatorio di fertilità e fecondità della Grande Madre Terra dove è permesso anche “mangiar di grasso”, è descritto in versi da Luigi Crisostomo Ferrucci che nel 1852 scriveva nella “Scala di vita”:
Nel giorno che dimezza il pio digiuno,
Di venti e venti, in piazza si raduna
Gran turba di fanciulli, e gode ognuno
Agitare e gonfiar nacchere, corni,
Cembali e pive, finché sale alcuno
A Segar mezza fra non degni scorni
Una befana misera che porta
Di varie frutta il seno e i fianchi adorni.
Ebbene, come spiega Alfredo Cattabiani nel “Lunario” (Mondadori), la Chiesa aveva avversato a lungo quest’usanza che, conficcata nel mezzo della Quaresima, sembrava interromperne il carattere purificatorio e penitenziale. Poi cercò di ritualizzarla in chiave quaresimale, come testimonia Michelangelo Buonarroti il giovane, membro dell’Accademia della Crusca, nella sua “Cicalata” raccontando di come a metà Quaresima una vecchia ebbe voglia di mangiare un salsicciotto bolognese e perciò fu processata e condannata a morire segata a metà:
«A costei... una volta... nel tempo della Quaresima... venne voglia di un salsicciotto bolognese e, procacciatolo tutto intero, crudo crudo, in una volta sel trangugiò. Fu scoperta alla Mozzalingua, la quale in breve processatala, la condannò ad essere segata viva, e perché le Fate le addimandassero in dono la vita di lei, non vi fu modo a scamparla dalla mala ventura. Venuta dunque la mattina che ella doveva morire, chiese a coloro, che a guastar la menavano, acciocché ella non fosse riconosciuta, che di alcuna cosa la volessero trasfigurare: i segatori, tolta la spugna, e tuffatala in quel calamajo, dove e’ dovevan tigner le corde per far la riga e segarla direttamente, la le fregarono al viso, e un vestire, che pareva da monaca, indosso le misero; e poscia, fattane una tacca, i denti appiccativi alla sega, segarono lei... senza niuna misericordia».
Il processo alla Vecchia era dunque interpretato religiosamente come il processo alle orge gastronomiche del Carnevale, e dunque come esaltazione della purificazione e dell’astinenza quaresimale. Ma era anche un “memento mori” impersonato nella “vecchia” per far rammentare alle donne che hanno come unico obbiettivo la propria bellezza, che essa finisce presto, perché il tempo passa in un soffio. E lo testimoniano questi antichi versi anonimi degli “Scherzi morali” per il rito della vecchia segata a Cremona:
Donne, voi gite altere
Che la vostra beltade il mondo adori
E con pronto volere
Quasi vittima a voi s’offrono i cori:
Ma pazze se ’l credete,
Che tutt’oro non è quel che risplende.
Cangia le sue vicende
Il tempo e alfin vi coglie nella rete.
Ed ecco in un baleno
Di vostra lieta fronte
Turbato il bel sereno,
E solo a scherni e a onte
L’egra vita soggiace, e ’l fasto altero
Altro non è che un soffio, un’ombra, uno zero.
Insomma, di là dalle interpretazioni moralistiche il rito di Sega-la-Vecchia, – dove ancora sussiste – e una cerimonia di passaggio verso l’equinozio di primavera, verso il nuovo anno: vi si celebra, senza esserne più coscienti, la morte del vecchio anno, ovvero, come sostiene Cattabiani, della “comare secca”, la Vecchia Madre Natura da cui rinascerà la giovinetta Natura, cioè l’anno nuovo. Si tratta della Luna nuova, simbolo della rinascita spirituale di chi sa liberarsi della vecchia pelle rinascendo “nuovo”.
L’usanza di segare e bruciare un pupazzo dalle sembianze di una vecchia si praticava anche in gran parte dell’Europa agricola e, come accade ancora in alcuni luoghi, si svolgeva a due date diverse: alle calende di gennaio, o qualche giorno dopo, e alla Mezza Quaresima. A gennaio, la Vecchia, chiamata Befana anche in periodo non natalizio, teneva fra le mani il fuso e la conocchia, come le tre Parche (un’altra rappresentazione della natura trifasica della luna), ed era riempita d’uva e fichi secchi, castagne, carrube, mele, pere con sapa e cotognata: piccoli regalini che, segata, concedeva ai paesani prima di essere bruciata sul rogo.
Tutte queste usanze ci permettono di cogliere la vera dea celata nell’immagine della vecchietta: è evidente che la vegliarda di Mezza Quaresima e quella dei primi di gennaio hanno la stessa funzione, simboleggiano la Grande Madre lunare nei suoi tre aspetti di Regina degli Inferi, del Cielo e della Terra. La Triplice Dea dei crocevia, la Ecate di Esiodo, che era anche “nutrice di giovani, quanti a lei fedeli...”, la quale, come dea lunare, diventa morendo, la prima virginea falce di luna della primavera, ad annunciare il rinnovamento dell’anno, la nuova fioritura.
Per tutto ciò, sebbene la data dell’8 marzo che celebra la Giornata Internazionale della Donna, sia nata per tutt’altri motivi, sociali e politici, non si poteva scegliere un mese migliore: quello appunto di marzo, quando la Madre Natura rinasce con l’equinozio di primavera. Il mese delle grandi divinità femminili quali Anna Perenna, Annapurna, Vesta; ma anche quello della Vecchia che viene segata per donare i nuovi semi che germoglieranno.
Figure che simboleggiano il perenne nutrimento; e infatti Anna Perenna divenne nel tempo la “Dispensatrice di cibo”: una divinità molto “casalinga” rappresentata di solito seduta nell’atto d’imboccare un bambino con un mestolo pieno. La raffigurazione della Madre per eccellenza che nutre i suoi figli, come le misteriose “Matres Matutae” custodite nel Museo Provinciale Campano di Capua che avrebbero ispirato alcune antiche riproduzioni della Madonna che allatta al seno il Bambinello.
Anna Perenna, insomma: la dea dell’Eterno Ciclo Femminile, quello lunare che porta la vita, la morte e la rinascita.
Inserito da ksvzdjgzyf il 20/03/2023 22:44:57
Totalità.it - Anna Perenna, la luna e la morte della vecchia Quaresima aksvzdjgzyf [url=http://www.gn8or50032abx35tqy5vrkf5kk724119s.org/]uksvzdjgzyf[/url] ksvzdjgzyf http://www.gn8or50032abx35tqy5vrkf5kk724119s.org/
Inserito da Loredana il 08/03/2013 14:22:15
Di solito la giornata di oggi si presta anche a molta retorica: con questo articolo ho scoperto qualcosa di nuovo, anche sull'eredità lontana del Paese in cui vivo, grazie!
Violetta Valéry ritorna nel suo tempo: una Traviata ottocentesca per il Maggio Musicale
Firenze: una Butterfly d'eccezione per il centenario pucciniano
Madama Butterfly tra Oriente e Occidente: Daniele Gatti legge il capolavoro di Puccini
Una favola che seduce e incanta: Cenerentola di Rossini trionfa al Maggio
Un lampo, un sogno, un gioco: Gioacchino Rossini, Manu Lalli e l'incanto di Cenerentola