Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Lucio Magri
La politica nonostante il fallimento evidente vince ancora, almeno sulle prime pagine dei giornali, seguita a ruota dalla cronaca. Già, le tre “s” del giornalismo: sesso, soldi, sangue cui si aggiunge la “p” tutta italiana.
Così accade che la morte di Lucio Magri, guadagna la foto di “prima” su «Repubblica», ma finisce in esima pagina con un trafiletto, o non c’è addirittura, negli altri giornali. Si penserà che si tratti nella normale gerarchia dettata dalle affinità di parte: Lucio Magri uomo di sinistra –anzi di ultrasinistra addirittura allontanato dal Pci, anima del «Manifesto» insieme a Luciana Castellina– viene ricordato con enfasi dal giornale a lui più vicino (l’«Unità» giornale non esattamente di destra in prima pagina preferisce richiamare l’inaugurazione della stazione romana di Tiburtina e tacere della morte del giornalista) e non da quelli che non ne condividevano le idee.
Invece nel caso di Magri la faccenda è diversa perché non si tratta della sua morte, ma di come essa è avvenuta, che avrebbe dovuto far riflettere, commuovere, lasciare ammirati.
Lucio Magri infatti – afflitto da una depressione profonda dovuta, come racconta Simonetta Fiori in uno splendido articolo, alla morte della moglie avvenuta un paio di anni fa e alla delusione di idee tradite – ha scelto il suicidio assistito.
È andato in Svizzera dove la pratica è legale e, accompagnato da un amico medico, ha posto fine ai suoi giorni dolcemente, senza gli effetti cruenti di un suicidio consumato sull’onda di un attimo di disperazione, avvertendo prima gli amici e disponendo tutto per il dopo.
Quasi si trattasse di una cerimonia. La liturgia della morte che un uomo, seppure depresso (ma attenzione la depressione non rende inabili all’intelligenza o al coraggio, e non limita la virilità di un gesto), ha compiuto nel pieno e orgoglioso possesso delle sue facoltà.
Lucio Magri è morto come un senatore romano (antico ovviamente), ha scelto il momento, ha valutato la propria preparazione al grande passo; già almeno un’altra volta era andato oltre confine, ma evidentemente non completamente convinto aveva rinunciato.
Di fronte al gesto di Magri, gesto antico chiama gesto antico, bisogna alzarsi in piedi e rendere onore all’uomo.
Impossibile nascondere l’ammirazione, il profondo rispetto che suscita la scelta estrema compiuta, non sull’onda emotiva di un momento acuto di disperazione, ma con la determinata consapevolezza di una disperazione irrimediabile, totale, senza scampo che coinvolge la parte più importante di un uomo gli affetti e le idee.
E allora via alle discussioni su bioetica, diritto alla dolce morte e simili?
No, per l’amor del cielo, no, assolutamente no e ancora no. Non riapriamo il discorso sulla Englaro e sui diritti all’autodeterminazione del fine vita.
In un paese come il nostro, dove per compiere un atto di equità si fa una legge mostruosa qualunque sia il campo nel quale si applica e non sto parlando di bioetica sarebbe troppo semplice; un paese come il nostro dove, per porre rimedio ai vagabondi del pubblico impiego, si fa una legge che punisce chi si ammala veramente, è bene che, non solo si astenga da legiferare in materia di bioetica, ma che non provi neppure a pensarci.
No, in questo paese, almeno fino a che avremo la classe politica che dal secondo dopoguerra in poi si è andata specializzando in stupidità e iniquità oltre che in ruberie sotto l’abito di una onnipresente demagogia; in questo paese dicevo non si può pensare di occuparsi seriamente di fine vita.
Il caso di Magri è esemplare e emblematico. Porre fine ai propri giorni secondo una pratica assistita e dunque dolce e indolore, deve essere difficile, quasi impossibile da ottenere, e nel tempo stesso deve essere fatto senza clamore preventivo, in un’ intimità ragionata.
Deve essere riservato ad una élite di uomini coraggiosi e non accessibile a fragili esseri abbattuti dalla temperie della vita.
Il suicidio non può e non deve diventare una pratica accessibile a tutti, in Italia ci troveremmo di fronte ad una legge che, magari partita bene, uscirebbe dalle mani del Parlamento conciata in maniera tale da essere o troppo permissiva (uno studente disperato per una bocciatura finirebbe per avervi libero accesso) o ristrettiva al punto da essere impraticabile.
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