Editoriale

La festa e il mercato, l'uomo produttivo e l'esigenza di vivere la vita

Sempre più spesso si dibatte sulle esigenze della grande distribuzione di non chiudere mai e quella delle famiglie di onorare le feste

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

er dire no alla giornata lavorativa per Pasquetta nel mercato Auchan di Sassari i lavoratori hanno dato vita ad una manifestazione e deciso di non aderire all’invito dell’azienda di garantire l’apertura. I sindacati di categoria Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno ritenuto che la festa dovesse essere dedicata al riposo e non al lavoro. Su circa 250 dipendenti una quarantina però ha deciso di lavorare regolarmente ed ha consentito l’apertura straordinaria dell’attività commerciale. Le ragioni della protesta sono state spiegate all’esterno da alcuni gruppi di persone che hanno invitato i sassaresi a non effettuare gli acquisti.

Fin qui la notizia, che propone l’ennesima protesta contro  l’apertura festiva di una struttura commerciale della grande distribuzione. Le iniziative, seppure in modo disomogeneo, continuano a coinvolgere tutto il territorio nazionale, in un patto inusuale che vede schierati Chiesa Cattolica, Confesercenti e Sindacati da una parte e grande distribuzione dall’altra.

La questione offre una triplice chiave di lettura: economica, sociale e culturale.

Sul primo versante, quello più immediato, c’è la realtà di centinaia di migliaia di piccoli negozi costretti a subire gli eccessi delle liberalizzazioni (a partire dagli orari, con conseguenti costi per il personale) senza particolari benefici per un settore che, nel primo bimestre di quest’anno, ha visto la chiusura di diecimila esercizi, con un vistoso crollo (-50%) delle aperture di nuove attività.

Sul piano sociale le domande più usuali sono: come può una famiglia condurre serenamente la propria vita se, quando il marito è a casa dal lavoro, la moglie è a lavorare, o viceversa? E se  quando i figli sono a casa da scuola, uno o entrambi i genitori sono al lavoro? Per di più, avere il tempo libero dal lavoro in giorni diversi gli uni dagli altri non consente che esso venga vissuto come tempo di festa, perché non è possibile far festa da soli; così come limita fortemente le relazioni amicali e la libera partecipazione alla vita di gruppi, associazioni e comunità.

Dal punto di vista culturale, equiparare giorni festivi e giorni feriali significa impoverire  uno spicchio  della nostra identità  collettiva, segnata  dalla presenza della “festa” e del Sacro.

Come ci indica la Dottrina Cattolica “la dimensione cristiana della festa come tempo di comunione e attesa porta a maturazione la nostalgia di un tempo dove l’uomo non serve solo la produzione, ma dove il lavoro ridoni speranza all’uomo. Tocca alle comunità cristiane predisporre le condizioni antropologiche, educative e comunitarie perché la domenica sia vissuta come tempo della festa, tempo “sacro”, cioè un tempo in cui l’uomo si lascia sorprendere (prendere-come-da-sopra) dal fatto che la vita personale, familiare e sociale è più di quanto egli misura, calcola, produce e costruisce, ma è dono che deve essere ricevuto e vissuto nel cerchio familiare e nello scambio sociale”.

A ben guardare, quella della “festa” non è  tuttavia una battaglia clericale, ma una sfida antropologica, in grado di coinvolgere l’essere stesso delle persone. E allora, se il commercio  è indubbio che debba essere favorito, è anche vero che esistono “bilanci culturali” con cui bisogna sapere fare i conti, a  cominciare dalla piena consapevolezza del proprio “tempo”, dal  riconoscersi in culture condivise, quali quelle che vengono anche dal comune ceppo cattolico,  dagli esempi di una religione che si intreccia con la società, che si fa bandiera, rito civile, segno distintivo, festa nel suo significato di evento gioioso e coinvolgente il singolo e la comunità, laddove invece a vincere sembrano essere le logiche del mercato, dell’individualismo, dello sradicamento culturale, della perdita della memoria.

 Per queste diverse ragioni i giorni “festivi” vanno difesi  e riconsegnati  al loro destino di giornate straordinarie e di “condivisione sociale”, anche a costo di scontentare qualcuno.





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