Editoriale

Oltre il Thatcherismo e Antithatcherismo, guardiamo ad un’economia sociale di mercato

Occorre un progetto di integrazione sociale sia per la crescita delle aziende e dunque del benessere dei lavoratori

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

nore a Margaret Thatcher, come si addice a chi “ha fatto”, nel bene e nel male, la Storia non solo del proprio Paese ma del mondo intero, plasmando economie e destini, travolgendo verità che parevano immutabili, pagando soprattutto in prima persona. Al personaggio non si addicono  le commemorazioni banali o le stroncature becere, tipiche di certa sinistra  (da quella estrema al falso-moderato Romano Prodi, che ha addossato a lei e a Reagan le responsabilità della crisi mondiale), né i facili schematismi.

La “signora di ferro” fu – da un certo punto di vista – una “conservatrice rivoluzionaria”, capace di stravolgere un sistema socio-economico consolidato e condiviso, sia dal Tory Part che dal Labour, costringendo  un Paese sostanzialmente depresso, quale era la Gran Bretagna della metà degli Anni Settanta,  ad una nuova stagione di profonde e travolgenti trasformazioni. “Privatizzare” fu allora la parola d’ordine per le aziende pubbliche di vario tipo; mano libera venne data alle imprese, in particolare in termini di licenziamenti ed assunzioni, con la creazione di una super-flessibilità di tipo “americano” del mercato del lavoro, con pochi eguali in Europa occidentale; tutto questo passò attraverso un forte   scontro sociale ed il ridimensionamento del sindacato.

Ma proprio per non banalizzarne il “messaggio”,   con l’addio a “Maggie” è tempo di salutare anche il  thatcherismo e l’antithatcherismo, visioni schematiche e di “seconda mano”  di un’idea che fu radicalmente innovativa per l’epoca in cui venne applicata, ma che sarebbe un errore trasformare in una sorta di  ideologia-passe-partout valida ed applicabile  a prescindere.

Come ebbe peraltro a scrivere la stessa Thatcher nelle sue memorie: «Prima ancora di leggere una riga scritta dai grandi economisti liberali, avevo imparato dai conti di mio padre che il libero mercato è come un ampio sistema nervoso che risponde agli eventi e ai segnali di tutto il mondo per incontrare le esigenze sempre mutevoli delle persone in ogni Paese, di ogni classe e religione con una sorta di benigna indifferenza alle loro condizioni».

Il dubbio è: può la politica essere indifferente di fronte  alla necessità di rispondere alle “esigenze mutevoli” ed  insieme alle “condizioni” delle persone? Ed in un  momento di grave crisi “di sistema” possiamo permetterci di costruire sul conflitto le possibili sintesi risolutive? Ed ancora:  in un  contesto di globalizzazione selvaggia è giusto che lo Stato abdichi alle sue funzioni di regia, indirizzo, controllo?

Più che “riproporre” soluzioni  bisogna allora guardare alla sostanza della crisi contemporanea e alle possibili vie d’uscita, magari con un occhio rivolto verso quello che una ventina d’anni fa si considerava un sistema al tramonto, l’economia sociale di mercato d’impronta renana, a fronte del trionfante modello “neoamericano”, fondato sui valori individuali, la massimizzazione del profitto a breve termine, lo strapotere finanziario.

Risultati recenti ci dicono infatti che lavorare per un progetto partecipativo e di autentica integrazione sociale dà buoni risultati sia per la crescita delle aziende e dunque del benessere dei lavoratori ed il giusto profitto del capitale, sia, più in generale, per il sistema-Paese, in un attento equilibrio tra rigore e sviluppo, flessibilità e garantismo, capacità di programmazione ed adattabilità. Rispetto al passato ed ai richiami, spesso formali, di scuola, oggi la strada vincente è in un mix attento e complesso, che sappia dare sicurezza (agli investitori, agli imprenditori, ai lavoratori) ed insieme sia capace di collocarsi dinamicamente sui mercati. Ciò non esclude la necessità e l’opportunità, in certe fasi,  di terapie “liberalizzatrici”, a fronte di una presenza eccessivamente invasiva dello Stato,  ma sempre all’interno di una “cornice” in cui chiari siano gli obiettivi e gli interessi nazionali, efficaci i contrappesi sociali, salve le relazioni sindacali.

La scomparsa di una “Lady di ferro” quale fu Margaret Thatcher anche a questo può “servire”, ripensandola alla luce dei nuovi contesti,  più che ad amarla od odiarla a prescindere.  In definitiva: guardare il mondo per quello che è  e non per quello che certe interpretazioni “ideologiche”, liberiste o “di sinistra”, si immaginano che sia, comportandosi di conseguenza. 

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