Mozart alla Scala

Il mito di Don Giovanni è nato a Siviglia

Miguel de Mañara, Pedrito Ribera, Don Juan Tenorio, chi il vero Don Giovanni?

di Marina Cepeda Fuentes

Il mito di Don Giovanni è nato a Siviglia

Miguel de Mañara

A Siviglia, nella chiesa di San Jorge annessa all'antico Ospedale della Carità, uno dei capolavori del barocco andaluso, sono custoditi i due celebri quadri di Valdés Leal dedicati al Trapasso, dove sono raffigurati vescovi e cavalieri morti, mangiati dai vermi e coperti da polvere, mentre le loro corone d'oro, le collane di perle e le spade riccamente lavorate solo seppellite sotto ragnatelle e detriti vari. Dei due macabri dipinti seicenteschi il pittore Esteban Murillo diceva che per vederli bisognava turarsi le narici: in effetti sono talmente realistici che contemplandoli pare di sentire il fetore dei corpi corrotti.

In Andalusia vita, amore, sogni e morte camminano insieme sícché non vi è bambino sivigliano che non sia stato portato qualche volta a passeggiare per i luminosissimi viali del bel cimitero di San Fernando oppure ad ammirare i due “orridi” dipinti di Valdés Leal dai significativi titoli: “Finis gloriae mundi” e “In ictu oculi”. La prima volta che mio padre me li mostrò rimasi colpita dall’orribile scheletro che in uno dei quadri trasportava sulle spalle la propria bara, ma anche da una lapide che vi è nel pavimento della chiesa con la seguente iscrizione: “Qui giacciono le ossa e le cenere del peggior uomo che ha avuto il mondo, pregate Dio per lui”. Mio padre mi spiegò che quelle parole erano state dettate in punto di morte dal fondatore dell’Ospedale nel 1679 il quale aveva voluto essere seppellito per terra “per poter essere calpestato e disprezzato da tutti”; mi disse anche che secondo alcuni studiosi Valdés Leal si era ispirato per la sua opera ad una leggenda che in quelli anni circolava per Siviglia proprio sul creatore dell’Ospedale della Carità, Miguel de Mañara y Vicentelo de Leca, nato nel 1627 da famiglia illustre,  discendente da uno dei tanti mercanti italiani che si erano stabiliti nella capitale andalusa attratti dalle ricchezze che arrivavano al suo porto dal Nuovo Mondo.

Miguel de Mañara aveva avuto una gioventù turbolenta dedito “alla spada e alle donne” come documenta la biografia scritta qualche anno fa dal gesuita padre Granero. Era di carattere superbo e collerico: si racconta che un giorno, mentre usciva di casa con l’intenzione di castigare a sangue un impiegato del municipio che aveva osato contraddirlo, cadde a terra ferendosi sulla fronte e perdendo i sensi. Ebbe una visione: vide passare un funerale e domandando chi fosse il defunto gli fu risposto che era il crudele Miguel de Mañara. Attonito si precipitò ad aprire la bara e con orrore vi trovò il proprio cadavere. Mañara sì risvegliò talmente terrorizzato che si pentì di tutti i peccati e decise di cambiare vita dedicandosi ad opere pie.

Quando la moglie Jeronima Carrillo de Mendoza morì, divenne membro esemplare della confraternita della Santa Carità, un’ associazione religiosa che fin dal Duecento dava cristiana sepoltura ai condannati a morte e ai poveri senza tetto. Dopo un anno fu nominato Fratello Maggiore, fondò l’attuale Ospedale della Carità e ingrandì la chiesa di San Jorge. A Siviglia la figura di Miguel de Mañara che di notte usciva a raccogliere sotto i ponti o nei porticati delle chiese i poveri e gli ammalati portandoli personalmente all’Ospedale divenne talmente popolare e leggendaria nei secoli che nel giardino di fronte alla chiesa gli è stato innalzato un monumento, opera dello scultore Antonio Susillo, che lo raffigura mentre trasporta fra le braccia uno dei suoi moribondi.

Durante l’occupazione Napoleonica della Spagna Alessandro Dumas, illustre viaggiatore, portò in Francia alcuni documenti sulla vita di Miguel de Mañara e nel 1836 scrisse Don Giovanni Mañara, la caduta di un mito, dove identifica il benefattore andaluso con il seduttore sivigliano protagonista del dramma seicentesco attribuito a Tirso de Molina, Il Seduttore di Siviglia e il Convitato di pietra, al quale si sarebbero  ispirati nei secoli successivi molti artisti. Da Moliere, che nel 1665 ne scrisse la tragicommedia in cinque atti Don Giovanni o il Convitato di pietra; al librettista veneto Giovanni Bertati che nella seconda metà del Settecento componeva il Don Juan Tenorio, ossia Il convitato di pietra. Qualche anno dopo, nel 1787, Lorenzo Da Ponte, apportandone notevoli modifiche con l’aiuto di Giacomo Casanova,  lo addottò  per  il libretto del Don Giovanni di Wolfgang Amedeus Mozart, opera lirica in due atti il cui titolo originale era Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni.  

Molti altri scrittori hanno sostenuto  nel tempo  la tesi di Alessandro Dumas: ad esempio Merimée nelle Anime del Purgatorio, o nel secolo scorso  Oscar V. Milosz in Miguel Mañara. Ma l’argomentazione è alquanto improbabile dal momento che l’opera di Tirso de Molina fu pubblicata nel 1630 quando Miguel de Mañara aveva soltanto tre anni! Ciò costituisce la prova principale dell’infondatezza della leggenda che lo vuole nei panni di Don Giovanni; leggenda che è stata per secoli il principale ostacolo per la sua canonizzazione. Il processo per la beatificazione di Miguel de Mañara è durato tre secoli e soltanto alcuni decenni fa Giovanni Paolo II lo ha proclamato Venerabile nonostante la fama di santità che lo aveva circondato fin dagli ultimi anni di vita. Attualmente, perché il nobile Cavaliere di Calatrava diventi santo, occorrerebbe un miracolo documentato che a tutt’ oggi non c’è,  sebbene gli si attribuiscano molti fatti miracolosi, come il celebre “prodigio delle rose”. Si racconta che per rallegrare il patio dell’Ospedale, dove i malati prendevano il sole d’inverno e il fresco d’estate, Miguel de Mañara piantò otto rosai e benché fosse inverno fiorirono all’istante: da più di trecento anni sono sempre là, nella stessa terra, negli stessi vasi, e dando ogni anno le stesse profumatissime rose.

Ma se Miguel de Mañara non ha ispirato il Don Giovanni di Tirso di Molina, chi è stato? È esistita realmente una figura di simile seduttore a Siviglia? Pare di sì: si chiamava Pedrito Ribera, dell’illustre famiglia dei Ribera marchesi di Tarifa e di Torres, duchi di Alcalà e di Medinaceli. Il giovane Ribera viveva in quella Siviglia del XVII secolo che la Chiesa locale chiamava “la Babilonia del peccato” per le ricchezze e i piaceri che offriva. Aveva sempre la spada pronta e gli scandali dei suoi amori, duelli e crimini, non si contavano; arrivò persino a schernire il vescovo della città che, illuminato da Dio, gli annunciò la morte per giustizia divina entro un anno, e ciò avvenne puntualmente. La famiglia di Pedrito Ribera in sufragio della sua povera anima fece costruire una cappella in onore della Vergine del Carmine nella calle Calatravas, dove si trova ancora oggi e dove una volta all'anno si dice Messa per le “anime di tutti i seduttori in Purgatorio”.

Si racconta che Tirso de Molina, frate Mercedario, si trovasse allora a Siviglia in attesa di imbarcarsi per l’America: probabilmente  raccolse quella storia che era nella bocca di tutti, trascrivendola nel suo celleberrimo dramma dopo aver cambiato alcuni fatti e aggiunto altri, come la profezia del vescovo oltraggiato, che nella finzione teatrale diventa l’annuncio di prossima morte che don Giovanni riceve dal Convitato di Pietra.

Nella seconda metà dell’Ottocento un altro Don Giovanni spagnolo si affaccia alle scene mondiali, il Don Juan Tenorio  di José Zorrilla; e se il “Beffatore” di Tirso de Molina è il dramma della presunzione e dell’impenitenza finale, quello di Zorrilla è il dramma della misericordia, della  salvezza per amore. I peccati del personaggio zorrillesco sono peccati normali, umani e non sacrileghi. Nella cattolica Siviglia questo è il Don Giovanni preferito che, tutto sommato, riccrda la figura dell’amato Miguel de Mañara.

Il filosofo spagnolo Ortega Gasset, nella Introduzione al Don Giovanni, parla  delle ragioni geografiche di ogni luogo, per cui un tipo di paesaggio corrisponde a un tipo di vita: “In ogni paesaggio troviamo preformato uno stile peculiare di vita che dovrebbe essere come la perfezione cosmica di quel luogo; allo stesso tempo ogni tipo umano proietta davanti a sé un paesaggio complementario affine. Questa affinità la si  trova fra Siviglia e Don Giovanni: Don Giovanni è il sivigliano autentico, e questa figura solo poteva nascere in una città piana, deliziosa, profumata e pazza di luce quale è Sivìglia”.

Miguel de Mañara, Pedrito Ribera, Don Juan Tenorio... Nell'immaginario collettivo sivigliano i miti e la realtà s’intrecciano, ma i luoghi rimangono e la presenza di don Giovanni nelle strade di Siviglia è ancora oggi viva. Basta andare al cimitero dove vi è un pantheon ormai in rovina appartenente alla famiglia Tenorio, o all’Istituto Murillo nel parco di Maria Luisa dove si trovò anni fa una lapide con il nome di don Juan Tenorio; e nel bellissimo quartiere arabo-giudaico di Santa Cruz è tradizione che ogni coppia d’innamorati entrino a bere una coppa dell’inebriante vino locale nella Osteria del Laurel dove leggendariamente don Giovanni preparava le sue conquiste amorose. All’interno vi è un drappo con una frase tratta del dramma di Zorrilla che romantici turisti fotografano quasi con commozione: “La osteria del Laurel? En ella está caballero”.


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