Editoriale

Inique tasse, tra simboli ed emergenze

Quel che sarebbe giusto ed equo in Italia si trasforma in ingiusto balzello a fondo perduto

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

arliamo di tasse? Il momento, per così dire, è propizio: tanto per limitarci a due soli aspetti, da un lato il popolo dei contribuenti sta per presentare l’annuale dichiarazione dei redditi e dall’altro l’oligarchia della politica è in ritiro nei pensatoi per almanaccare quanto meno un avvio di riforma fiscale che, come minimo, dovrà contemplare la soluzione del “nodo IMU” e, più in generale, una rivisitazione delle diverse temute sigle che nascondono prelievi sempre meno sopportabili a carico dei cittadini: IRAP, TARES, IVA e così via.

Dunque, le tasse. Non è fuor di luogo ricordare che l’imposizione fiscale rappresenta uno dei momenti fondamentali della Sovranità Pubblica e, per converso, una delle prerogative di base dello statuto di cittadinanza (anche se, da quest’ultimo punto di vista, il detto ormai classico “no taxation without representation”, incontra tante e tali deroghe ed eccezioni da dover essere rimodulato).

Certo, questo non vuol dire che “pagare le tasse è bellissimo”, secondo l’infelice uscita del prof. Padoa Schioppa, all’epoca Ministro delle Finanze del secondo Governo Prodi; tuttavia non si può disconoscere che proprio l’assoggettarsi al “dovere fiscale” costituisce uno dei pilastri del patto sociale. A questo proposito, non va dimenticato non solo che le tasse rappresentano il corrispettivo dell’erogazione di servizi da parte dello Stato e degli Enti territoriali impositori, ma che la natura, la misura, in una parola le scelte che un’Autorità privilegia in materia di imposizione fiscale finiscono con il proporre un modello di società a scapito di un altro, anche calcando la mano su questo o quel blocco sociale, su questo o quel bene, ora incentivando e disincentivando, ora imponendo e sanzionando.

Si pensi ad alcuni casi che occupano – da tempo! – le nostre cronache, a partire dall’IMU. Questa imposta, che sembrerebbe odiata a destra e meglio sopportata a sinistra, grava in realtà su di un’amplissima platea di contribuenti, in funzione del fatto che l’80% degli italiani risulta essere proprietario di casa. E qui ci imbattiamo in due ineliminabili macigni, che sbarrano la strada virtuosa delle tasse e ne alterano il circuito altrettanto virtuoso fra Autorità e Cittadino: il fattore emergenza, che impone deroghe anche odiose ai principi – e ai patti sociali – e il binomio “ampiezza” - della platea, appunto - e “facilità” di aggredire soggetti e beni da cui attingere il prelievo.

Sotto questi profili, è fin troppo evidente che la Casa rappresenta il bersaglio privilegiato per chi si trovi nella necessità di fornire risorse ai famelici bilanci pubblici, non fosse altro per la sua “visibilità”, sancita dal regime di registrazione di qualsivoglia modifica che la riguardi, dalla fase progettuale al benché minimo intervento di manutenzione/restauro, dalla compravendita alla successione, dalla locazione alla donazione.

La casa – anche la prima casa - è un bene economico, si dirà, e come tale assoggettabile all’imposizione fiscale, nelle sue diverse forme. Non si fa così in tutti i paesi “virtuosi”? Eppure, una simile impostazione tecnicistica, che fra l’altro ignora le differenti storie e sensibilità di questi “altri” paesi, tradisce una delle principali istanze della politica e della stessa convivenza civile: quella simbolica. La casa dove si abita, il tetto che dà riparo e conforto alla famiglia, è qualcosa di più di un bene economico: è il focolare domestico, è il luogo delle memorie, degli affetti, dei sogni e dei programmi futuri; ma è anche l’obiettivo per il quale si è disposti al sacrificio, a sottrarre risorse per il presente, in funzione di un avvenire comune a tutti i membri della famiglia. La casa dove si abita è un organismo vivente, che segue l’arco biologico di chi, appunto, le conferisce soffio vitale, dimensione estetica, sicurezza e comodità; le dimore, insomma, invecchiano come i loro proprietari e come loro furono giovani, per poi conoscere una maturità effimera e poi morire e mutare ciclo di esistenza, magari passando ad altri e più giovani abitanti. Non dimentichiamo che un tempo le mura entro le quali si svolgeva l’intimità familiare erano consacrate ai Lari: un’aura di tale sacralità dovrebbe essersi perpetuata perfino nei nostri tempi di secolarizzazione e di disincanto.

In definitiva: è lecito tassare un simile grumo di sentimenti, aspettative, progetti, sacrifici? E’ questo l’interrogativo che si dovrebbero porre i legislatori, anche in frangenti di crisi profonda come questa che stiamo vivendo. Qui non entriamo nel merito “tecnico” e nemmeno politico delle scelte di chi dovrà abolire piuttosto che rimodulare l’IMU, comunque da valutare nella sua storia e destinazione originaria, nel quadro di un riassetto federalista della normativa fiscale e tributaria. E neppure è il caso di tracciare solchi, fra chi vede nella stabilità della casa – e, dunque, della famiglia tradizionale – un’immagine di società “superata”, e chi invece si pone come paladino di quella stabilità, di quel modello familiare. Beninteso, c’è anche questo conflitto tra i fautori delle due posizioni: tramontato il modello sovietico della coabitazione e della subordinazione del singolo agli interessi della collettività, resta pur sempre sulla scena quello delle metropoli americane, dello sradicamento diffuso, illustrato, per esempio, da tanti film, dove le case appaiono nella fragilità delle loro pareti di cartongesso e nella sprezzante frugalità di certi arredamenti da motel, non più che tappe di una vita itinerante, da una città all’altra, da un nucleo familiare all’altro.

E neppure mi impantanerò nelle motivazioni legate allo sviluppo della nostra disastrata economia, penalizzata sì dalle scelte politiche sbagliate, ma anche dalla ottusità delle Banche – o dai loro oscuri disegni? – pronte a giovarsi di flussi di liquidità a buon mercato e restie a rimetterli in circolazione, a beneficio di privati e imprese. “Quand le bâtiment va, tout va”, si è soliti ripetere: e certo, le norme varate in questi ultimi tempi – anche da governi “tecnici”! – non sono andati nella direzione giusta, per risollevare questo fondamentale settore della nostra economia; né mi soffermerò sull’iniquità di questa imposta, che colpisce indiscriminatamente (anche chi, dovendo fronteggiare un pesante mutuo, di fatto non sarebbe nemmeno proprietario del bene colpito). Qui, lo abbiamo detto, ci siamo proposti di sottolineare quegli aspetti che dovrebbero stare alla base della nostra convivenza civile.

D’altra parte, non è questa la sola anomalia nel segno dell’iniquità del nostro sistema fiscale, e non è certo questa la sede per commentarle tutte, neppure a volo d’uccello: basti pensare al canone televisivo, nato in epoche di monopolio statuale della comunicazione radiotelevisiva e perpetuato ora, nell’era dell’offerta e della natura – anche tecnica – più disparata e ampia di programmi e servizi, anche via internet. Oppure, in tutt’altro settore, alla tassa sull’auto, trasformata da tassa di circolazione in tassa di possesso, senza distinguere tra i veicoli nuovi e quelli magari fatiscenti, passando dalla imposizione sulla mobilità a quella sulla immobilità, proprio nel momento in cui è massima la mobilità delle nostre società; e questo, solo perché è ritenuto necessario mantenere un’opprimente – e clientelare – burocrazia. Ma anche questa, come altre volte abbiamo dovuto notare, è un’altra storia, che speriamo non debba alimentare ulteriormente il distacco del cittadino dalle classi dirigenti, nel solco di una necessitata disobbedienza civile.

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