Editoriale

Se un intellettuale si uccide per affermare il principio di una vita "persuasa"

Giusto un secolo fa Carlo Michestaedter si suicidò con un colpo di pistola dopo aver consegnato la sua tesi di laurea “La persuasione e la rettorica”

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

on il sangue e con l’inchiostro, come per l’epopea dei “collabos” francesi:  si è suggellata così la vita terrena di Dominique Venner, intellettuale autentico ed integrale uomo di testimonianza. Difficile passare indenni attraverso le  cronache giornalistiche, che hanno “ricostruito” il personaggio nella maniera più scontata: l’Oas e la reazione, un po’ di revisionismo storico e l’immancabile nazismo. Insomma l’immagine della solita “gentaglia”, epiteto che qualcuno gli ha concesso come estrema decorazione.

Di fronte  ad un atto così estremo,  interrogarsi sul “senso” del suo gesto,  significa andare oltre le banalità della cronaca, le strumentalizzazioni di parte, le ricostruzioni imbarazzanti. E, nel contempo, è doveroso fare un discorso di responsabilità, per chi rimane, per chi Venner ha letto ed apprezzato, per i giovani soprattutto.

Avendo anche la sfrontatezza di dire che non   ci appartiene l’etica della volontà,  a cui egli ha fatto appello, con il suo gesto estremo in Notre Dame, a Parigi, dove si è suicidato con un colpo di pistola, si dice, contro la nuova legge francese sui matrimoni omosessuali.  

Non ci appartiene proprio per “cultura”, per “appartenenza”, quella cultura e quell’appartenenza con cui Venner ha voluto suggellare la sua estrema testimonianza, “al fine – come ha scritto nel suo messaggio d’addio - di risvegliare le coscienze addormentate”,  insorgendo contro la fatalità, contro i veleni dell'anima e gli invadenti desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà plurimillenara.  

Né  crediamo che “per risvegliare le coscienze” siano necessarie “azioni spettacolari” – così come evocato da Venner. Nel mondo di oggi, che ha tutto spettacolarizzato, vite preziose come quelle dell’intellettuale francese suicidatosi in uno dei simboli più alti della Tradizione francese, vanno salvaguardate piuttosto che essere concesse alla mattanza dei mass media. 

Del resto – secondo la Tradizione – la vita ci è concessa in “prestito” e dunque su di essa non abbiamo pieno diritto. Né è possibile  distinguere un diritto “nobile” ed uno “ignobile”  di morire, uno “giustificato” dall’etica dell’eroismo e del sacrificio, l’altro segno di disperazione e di abbandono. Il suicidio è un dramma. E come tale non può essere “rivendicato”. Particolarmente in opposizione ad un mondo che della morte ha fatto bandiera.

Perciò, all’ opposto, la “riforma intellettuale e morale” auspicata, sul suo blog, da Venner,  deve essere giocata  sui crinali della vita. Nella drammatica, sacrificale quotidianità ed in alternativa radicale alla “cultura della morte” oggi dominante: morte della famiglia, del concepito, dell’io,  della civiltà. E dunque contro quelle “ambiguità tossiche” – stigmatizzate da Venner – che vanno ben oltre i dettami di certe leggi, che si fanno sensibilità diffusa. E che per essere sconfitte hanno bisogno di testimonianze autentiche, di identità visibili, di vita vissuta.

Malgrado tutto, abbiamo ancora l’ambizione di credere – con Drieu La Rochelle, uno dei grandi maledetti della cultura francese del Novecento  – che di fronte alla crisi moderna la fuga non sia concessa e che sia ancora il tempo  per costruire “la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio”. Tra i costruttori di questa  “torre” avremmo voluto ancora vedere  Dominique Venner. 

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