Editoriale

Due o tre cose sul Governo Letta e sui partiti che lo sostengono

Larghe intese? Mah, forse fra i partiti ma non al loro interno

Giovanni F.  Accolla

di Giovanni F.  Accolla

gnuno la interpreti come meglio crede: che sia promessa o minaccia, Enrico Letta ha detto che il suo governo potrà durare l’intera legislatura. Ora non è facile capire quali siano i segnali che danno al giovane premier questa speranza, ma a ben guardare il suo esecutivo - costantemente accompagnato da una rigorosa attività di supporto politico e istituzionale da parte del presidente delle Repubblica - sta lentamente tessendo intorno a sè una tal rete di interessi (la gran parte extra politici: penso all’Europa, a Confindustria, all’intero sistema bancario), che la sua dichiarazione non sembra, poi, tanto avventata. Il fatto è che - al di là di ogni merito o demerito -  l’esecutivo Letta vive di debolezze e paradossi.

La prima e più eclatante debolezza che nel contempo ha anche la cifra del paradosso, è la sua scarsa rappresentanza - nonostante sia nato sotto l’egida delle larghe intese - rispetto ai partiti che lo sostengono. Sempre più evidente, infatti, appare la distanza e la diversità di vedute tra i ministri e i loro partiti di appartenenza. Se Alfano, com'è evidente, non è tutto il Pdl, Letta non è affatto il Pd: da un lato la dialettica tra i cosiddetti falchi e le cosiddette colombe è a dir poco vivace, tanto che Berlusconi ha preso l’abitudine di incontrare separatamente le due fazioni, dall’altra - nel Pd - è autentica bagarre tra gruppi organizzati tanto per la segreteria del partito (momentaneamente affidata ad uno sbiadito Epifani), quanto per la leadership della coalizione, perché ancora non s’è compreso se le due cose in futuro collimeranno. O meglio ancora, se converrà che le due cariche si sovrappongano.

Intanto non c’è giorno che per il Pd non porti la sua pena: e il tormento più costante si chiama Renzi. Il sindaco di Firenze (ma quando lo fa il sindaco?) pungola, dice di “aver fatto voto di non parlare male del governo”, ma intanto avverte: “Io spero che Letta abbia successo. Lo stimo, abbiamo un bel rapporto. Apprezzo il suo equilibrio; mi convincerà meno se cercherà l'equilibrismo”. In particolare ora l’affondo è sulla legge che prevede l’abolizione al finanziamento pubblico ai partiti:  “si poteva avere più coraggio - ha detto il sibillino Renzi  -  spero il parlamento lo migliori. E che venga abolito il Senato, trasformandolo in Camera delle autonomie: 315 parlamentari in meno significano meno costi e più efficienza. Il rischio che il governo cada c'è. Anche più grave di quello del 2007 (segretario Veltroni, premier Prodi): allora c'era un governo di centrosinistra, questo vede sinistra e destra insieme”.

Mentre  personalmente sono sempre più convinto che la minaccia più grande alla tenuta del governo Letta venga ancora e soprattutto dalle beghe della sinistra che sta trasformando il Pd in un partito di lotta e di governo, Epifani continua ossessivamente a dichiarare che le sorti dell’esecutivo sono nelle mani di Berlusconi. Ogni mattina il segretario del Pd prospetta nuovi scenari apocalittici, e poco conta per lui che il Presidente del Pdl quasi ogni giorno torni a ribadire il suo impegno propositivo: ormai questa è la linea - quella di dare altrove colpe preventive - che e va portata diligentemente avanti.

Del resto i fatti parlano chiaro, la loro affidabilità è pari a zero: quelli del Pd hanno cercato per 57 giorni un’alleanza quanto meno improbabile con i Cinque Stelle, hanno poi impallinato due candidati al Quirinale, ora si scannano per il controllo del partito. Sono indecisi su tutto, sempre più ostaggio delle componenti interne, quanto della sinistra vendoliana, la quale continua a gigioneggiare con le strambe iniziative e dichiarazioni della presidente della Camera. Ma poi, s’è capito se ci andrà al Gay pride? Se non fosse istituzionalmente grave, sarebbe uno spasso.

Comunque, la prospettiva più nobile, la strada maestra della riuscita del governo Letta - ancora piuttosto lento (sarebbe da dire equivoco) sulle iniziative economiche da intraprendere (Imu è stata abolita o no? L’Iva verrà aumentata? La defiscalizzazione del lavoro per i neo assunti è una chimera?) -  è quella che porta alla riforma in senso presidenziale della Costituzione.

E questo percorso, ancora una volta, è innegabilmente intrecciato con quella del calvario giudiziario di Silvio Berlusconi. Se, infatti, il leader del centro destra verrà “eliminato” per via giudiziaria, c’è da scommetterci, la riforma istituzionale in chiave presidenziale verrà, a mio avviso, approvata senza indugi entro i diciotto mesi indicati da Giorgio Napolitano. Se invece, per qualche strambo ed inaspettato accidente, o miracolo (secondo i punti di vista), il Cavaliere riuscisse a sopravvivere politicamente alla persecuzione giudiziaria che si va consumando nei processi Mediaset, Ruby, Unipol e “napoletani vari”, il furore del popolo della sinistra si rivolgerà contro ogni ipotesi di innovazione e cambiamento della Carta Costituzionale, e addio speranze di rinnovamento istituzionale che, personalmente (ma non credo di essere solo), reputo indispensabile per la sopravvivenza del Paese e per il futuro e la credibilità della politica che lo dovrebbe governare.  

Infatti, il no preventivo alla riforma semipresidenzialista alla francese di una significativa parte della sinistra, nasce - è evidente - dal timore che Berlusconi voglia sfuggire alla giustizia facendosi eleggere capo dello Stato! Con simili presupposti - vien da chiedersi -  esiste una qualche possibilità che si possa mettere seriamente mano alla riforma della Carta costituzionale? Con tutto rispetto per la buona volontà e la competenza dei quaranta esperti.


Daniela Santanchè ha minacciato lo sciopero fiscale del popolo del centro destra in un caso della soluzione giudiziaria, che chiamerei senza imbarazzo “soluzione finale”. Non so, forse quella della Pitonessa (come l'ha definita Ferrara) è una minaccia che ha il sapore di una boutade, ma la cancellazione per via giudiziaria dell'unico leader del centro destra in grado di competere con la sinistra costiutirebbe - senza ombra di dubbio - l'ipoteca certa per una rottura traumatica ed irreparabile del tessuto democratico e sociale del Paese. E non si tratta di essere o meno berlusconiani, ma di capire che l’Italia non ha bisogno di una guerra civile! Ma, infine, un dubbio m'assale: non è che a qualcuno questa prospettiva piaccia?


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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da enriquern60 il 24/09/2019 00:19:11

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