Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
'Italia è notoriamente un paese dalla memoria corta. Per un buon mezzo secolo siamo stati governati da politici antifascisti che provenivano in gran parte dalle file del PNF, egemonizzati da intellettuali antifascisti e resistenziali ch'erano spesso degli ex “littori”, imboniti da giornalisti democratici che a suo tempo avevano impestato di articoli antisemiti le rivistine dei GUF. Poi, con Berlusconi, siamo stati aduggiati – e lo siamo ancora - da maturi signori conservatori e liberal-liberisti tutti o quasi dotati di un passato di agit-prop in “Lotta Continua” o in “Potere Operaio”: e che adesso, ben installati in giornali e in TV, riciclati come cattolici o come “moderati” liberal-liberisti si offendono moltissimo se qualcuno lo ricorda loro e lo trattano da provocatore.
Grazie a Dio, io mi vanto invece di essere uno dei pochi italiani dall'ottima memoria (anzitutto nei confronti di se stesso) e il cui passato non passa mai, una specie di Peter Pan magari suo malgrado (magari però no) al quale di continuo si rimprovera e si rinfacciano i trascorsi “neofascisti”, fossero pur postadolescenziali o quasi. La cosa, intendiamoci, talvolta m' irrita ma in fondo non mi dispiace: sono una persona onesta, non ho mai chiesto favori a nessuno e non ho nulla di cui vergognarmi o da rinnegare. E se mi isolano, non m'invitano in TV, non recensiscono i miei libri, diciamo la verità: un pochino me ne vanto – sono un vanitoso – e soprattutto, come diceva Lui (caro Lei!), me ne frego. Comunque, di quelle mie lontane esperienze politiche ho anche scritto: e molto. Almeno due libri: L'intellettuale disorganico (Aragno) e Scheletri nell'armadio (La Roccia di Erec). Per cui, gli sciocchini che di quando in quando s'illudono di avermi colto con le mani nel sacco si sono in realtà informati, magari senza saperlo e di quinta mano secondo il loro inveterato costume di bricoleurs informatici, su materiali che sono stato io a fornir loro. Certo, anche a voler evitare ad ogni costo qualunque dietrologia e a non soffrire per nulla di manìe di persecuzione, quando uno constata di aver pubblicato da poco, e con un editore come Laterza, un libro di oltre 750 pagine (Il Turco a Vienna) che i grandi quotidiani e le grandi rubriche televisive (tenute magari da “amici” che quando ero nel CdA della RAI non facevano che chiederti favori) hanno unanimemente snobbato, mentre poi ad esempio il giornale della Sinistra Intelligente cita il tuo nome associandolo in qualche modo -ovviamente a sproposito: ma forse non a caso - al fattaccio fiorentino del 13 dicembre 2011, qualche sospetto viene. Che lassù, nei piani alti della politica e dell'informazione, qualcuno non mi ami? Il che poi non mi stupirebbe, visto che di piedi ne ho pestati parecchi, di sassi in piccionaia ne ho tirati eccome. Chiedetelo a tutti i Signori Esperti che nel 2003 magnificavano l'esportazione della democrazia in Iraq, e che oggi che l'esercito statunitense ha ripiegato le tende e se n'è andato lemme lemme da una terra che ha martoriato per otto anni (e presto farà lo stesso, se Dio vuole, in Afghanistan), non hanno il coraggio e il pudore di ammettere di avere sbagliato e di aver ingannato la gente. O non gliel'avevo detto a chiare note, io, in Astraea e i Titani (Laterza), altro libro censurato dai media?
E'' quindi accaduto, secondo al logica del “parlane-solo-per-dirne-male”, che il 15 dicembre 2011 qualcuno, redigendo per “La Repubblica” in margine a un articolo di Carlo Bonini (p.21) un grafico che rappresentava l'albero genealogico di Casa Pound, tirata in ballo in seguito al triste episodio dell'assassinio di due senegalesi a Firenze da parte di uno squilibrato che pare frequentasse quegli ambienti, ha messo il mio nome alla radice della pianta il frutto avvelenato della quale sarebbe lo sparatore. Difatti mi ha indicato, a quel che pare, come uno dei leaders del movimento di “Giovane Europa”: e sì che allora avevo appena venticinque-trent'anni e facevo solo l'iscritto. Non ero nemmeno dirigente locale. Ma tant'è. “Cattivo Maestro” fino da allora: ed evidentemente rimasto tale, dal momento che dall'articolo e dal grafico annesso s'inferisce che l'ambiente di estrema destra frequentato dal folle assassino di Firenze si sarebbe in qualche modo ispirato alla mia lontana lezione. Resta un mistero il motivo per il quale l'autore del grafico in questione abbia segnalato i capi e gli ispiratori di tutti i movimenti che avrebbero in qualche modo costituito il pedigree di Casa Pound o che ne siano gli immediati interlocutori (Lotta di Popolo, Ordine Nuovo, Terza Posizione, Forza Nuova eccetera) e solo nel caso di Giovane Europa abbia scelto di trascurare i pezzi grossi (a loro volta piccoli piccoli, trattandosi di formazione ristretta) per ricordare dei gregari o poco più com'erano allora i giovani Cardini, Mutti e Borghezio. Forse perché tali giovani hanno poi fatto parlare un po' di sé, in vari e differenti contesti. Ma non è un metodo proprio irreprensibile. Ad ogni buon conto, diciamo per quanto mi riguarda ch'ero evidentemente un tipo pericoloso anche da ragazzino.
Vero è difatti che già allora la mia carriera di politico e di agitatore era lunga: era cominciata nel '53 quando sulle ali dell'entusiasmo per Trieste tornata italiana aderii tredicenne alla “Giovane Italia”, l'organizzazione studentesca del MSI, alla quale tre anni più tardi rafforzai la mia adesione dopo i fatti d'Ungheria. Ma a pensarci bene, l'anno-chiave del mio impegno politico – che peraltro avrebbe preluso all' abbandono di esso, alla fine degli Anni Sessanta – fu un avvenimento del quale ricorre nel 2012 il cinquantennio.
Mezzo secolo: una distanza temporale che mi dà i brividi. Non è nulla, meno di un battito di ciglia di Dio: per il Quale diecimila anni sono, come sta scritto, appena un turno di guardia nella notte. Ma, per la vita di un uomo, è un periodo immensamente lungo: vi sono molte vite, anche illustri, che non arrivano a colmarlo.
Cinquant'anni dall'apertura del Concilio Vaticano II. Ecco un avvenimento davvero epocale, che ci ha segnato tutti in modo straordinario. Li ricordo bene, quei giorni: molti dettagli mi sfuggono o mi giungono appannati alla mente, ma il colore e il sapore di allora mi è chiaro. Un'età lieta per me, perché erano i miei vent'anni appena trascorsi (sono del 1940): ma un'età che nel complesso ricordo come abbastanza triste e squallida, a dispetto del trionfalismo con cui molti ne parlano adesso. C'era una brutta politica gestita dall' oligosaurismo democristiano che si era di recente, dopo lunghe e ambigue manovre, riciclato in centrosinistra sull'onda dei fatti di Genova del '60, falsa e pretestuosa rivoluzione antifascista di popolo. C'era per fortuna un buon cinema italiano, nel quale noialtri eversivi-refrattari ci rifugiavamo spesso (ed organizzavamo anche dei cineclub controcorrente). C'era la dittatura intellettuale della sinistra, quella evocata a posteriori da Ernesto Galli della Loggia: e noialtri reprobi ci sentivamo stretti tra l'ostracismo delle sinistre (tutto quel che faceva il MSI era sempre e solo “provocazione”: e Palmiro Togliatti, il Migliore, aveva decretato che “il fascismo non ha né idee, né cultura”) e la viltà, il perbenismo dei moderati cattolici o laici i quali di nascosto ci facevano l'occhio di triglia quando si trattava di contrastare i comunisti in piazza, ma ufficialmente erano ligi al diktat delle sinistre, secondo le quali “coi fascisti non si parla”. Il bello è che ogni tanto quel tabù veniva rotto proprio da esponenti, giovani e meno giovani, delle sinistre, magari estreme: che avevano al prerogativa e l'esclusiva di poterlo fare, come si vide col milazzismo in Sicilia. A Firenze, poi, bisognava misurarsi col “sindaco santo”, Giorgio La Pira: il quale faceva cose che oggi, a distanza di mezzo secolo, riconosciamo come ottime (i Colloqui Mediterranei, ad esempio), ma con noi si dimostrava anche lui ligio al dogma secondo il quale i “fascisti” andavano isolati e ghettizzati: anche quando si trattava in realtà di bravi ragazzi che cercavano a loro volta di capire, di contribuire alla vita del loro paese, d'imparare e di discutere.
Era questa la temperie nella quale si aprì il Concilio Vaticano II, che a noi refrattari ed eversivi dette l'idea di svolgersi all'ombra della pesante demagogia della “Chiesa di sinistra”, quella che – per dirla con Jacques Maritain – si stava “inginocchiando dinanzi al mondo”. Oggi, ci rendiamo conto che ciò non era vero del tutto, che c'erano altre istanze, che personaggi come il fiorentino don Milani dicevano molte cose giuste, che nell'America Latina i “teologi della Liberazione” lottavano in effetti, con coraggio, contro la tirannia dei gorilas e lo sfruttamento di colossi criminali come la “United Fruits” o le “Sette Sorelle” del petrolio. Qualcuno di noi, cominciava a provar simpatìa per quello che sostanzialmente era il “nazionalsocialismo” (nel senso etimologico del termine) di castristi e di nasseriani. Ma c'era la guerra fredda da una parte, l'ambigua e retorica alleanza umanitaria e progressista delle “Due K” (Kennedy e Kruschev) dall'altra, che papa Giovanni XXIII sembrava avallare.
Noi non ci stavamo. Assistevamo con indignazione allo spettacolo di cardinali e di pretini che ci sembravano correre disordinatamente verso la rinunzia a tradizioni secolari nel nome di un “rinnovamento ecclesiale” che buttava a mare secoli di magistero teologico e di tradizione etica e liturgica. Ciò non ci piaceva. Non riuscivamo ad approvare che l'officiante della messa potesse denominarsi “presidente dell'assemblea”, espressione che peraltro traduceva alla lettera un dettato paolino (Prima Lettera a Timoteo, 5,17), ma che aveva l'aria un po' ridicola di una riunione condominiale. Non apprezzavamo l'innovazione del sacerdote che celebre il servizio liturgico con la faccia rivolta verso i fedeli in quanto la vecchia posizione, quella che “dava loro le spalle”, indicava in realtà il fatto che egli era il primo della comunità la quale nel suo complesso stava di fronte al Signore. Non ci piaceva la conclamata connessione, da parte dei prelati “progressisti” diretti da esponenti come il grande e terribile cardinal Bea, tra religione e politica, nonostante sapessimo bene che si tratta di due dimensioni distinte ma fatalmente intrecciate fra loro. Forse, però, non ci rendevamo conto di prestare in tal modo la nostra ingenua onestà di giovani ai poco nobili fini di una borghesia ipocrita che apprezzava la Chiesa come fattore di conservazione sociale ma ne avversava i fermenti innovativi in quanto essi rischiavano di compromettere i loro interessi egoistici.
Poiché questo era il nodo della nostra contraddizione: sognavamo una forza politica nuova che fosse in grado di combattere il Vecchio nel nome dell'Antico e che propugnasse una rivoluzione sociale nel nome non del materialismo, bensì dello Spirito. Ma ci dibattevamo tra senso dello stato e umanesimo del lavoro gentiliani da una parte, “rivolta contro il mondo moderno” evoliana dall'altro cercando di conciliare tali istanze tra loro senza renderci conto che a tale scopo sarebbe stata fondamentale una critica radicale e sistematica della Modernità come primato dell'individualismo e dell'utilitarismo economicistico; e che intanto militavamo in una formazione politica come il MSI, che metabolizzava le nostre confuse ma generose istanze in termini di appoggio sostanziale e costante alla logica atlantista, al materialismo capitalistico occidentale e al conservatorismo di schieramenti ch'erano sì anticomunisti, ma strumentalmente e “a senso unico”, per difendere i loro privilegi.
Cadendo nell'equivoco di un anticomunismo rigoroso e intransigente, abbracciammo quindi una per una tutte le cause che facevano l'interesse di lorsignori: nel nome dell'anticomunismo, stavamo con i tirannelli sudvietnamiti collaborazionisti degli americani contro i Vietcong; fummo con gli interessi francesi contro i combattenti per la liberazione dell'Algeria (fino a simpatizzare con il terrorismo dell'OAS), facemmo il tifo per l'Unione Minière in Congo contro i patrioti di Lumumba e per l'apartheid sudafricana convinti di dover difendere l'endiadi Europa-Occidente; in tale quadro, rientrava anche l'opposizione alle istanze “democratizzatrici” della Chiesa espresse nel Concilio. Eppure, qualcosa c'impediva di stare fino in fondo al gioco della contrapposizione est-ovest: ad esempio, non riuscimmo a commuoverci più di tanto per l'assassinio di JFK. C' era qualcosa, in quel suo sorriso disarmante uscito da un film di marines, che non ci convinceva.
E infatti a salvarci, e a farci capire che cosa c'era che non andava, furono due incontri con altrettanti personaggi “fuori dal coro”: Attilio Mordini e Jean Thiriart.
Da Mordini apprendemmo come coniugare la labilità e la casualità delle vicende storiche con la solidità eterna e universale della metafisica e della metastoria; imparammo che Modernità e Occidente erano tutt'uno e compartecipavano di una grande apostasia nel nome della quale l'individualismo e il culto del profitto avevano assoggettato e adulterato qualunque altro valore; ci svincolammo del tutto dal malinteso dei residui risorgimentalistici e nazionalistici; comprendemmo che, sul piano ecclesiale, non era affatto il caso di regredire alla controriforma tridentina ma ch'era indispensabile il “balzo verso l'alto”, il recupero del grande universalismo cristiano patristico e teologico in grado di ripensare in modo originale i rapporti con ebraismo e Islam e quelli con le stesse culture “pagane”, sulla linea del magistero espresso nel De pace fidei di Nicola Cusano. Alla luce di tutto ciò, e sulla base della lezione del grande conciliarismo quattrocentesco che rimetteva in discussione non già il Primato di Pietro o l' auctoritas pontificia, bensì l'assolutismo monarchico papale con le sue radici medievali (in questo senso imparammo a dirci “ghibellini”, pur prendendo le distanze dal dogmatismo antitemporalista vivo tanto a destra quanto a sinistra), fummo in grado di riconsiderare più equamente lo stesso Vaticano II distinguendo tra la bontà intrinseca di molti dettati conciliari e la cattiva qualità della loro applicazione che stava rischiando di tagliare alla radice il rapporto con la tradizione e con la devozione popolare espropriando i semplici e gli umili della loro fede.
Da Thiriart (del quale è stato recentemente ristampata cura di Giuseppe Spezzaferro il libro L'Europa: un impero di 400 milioni di uomini) imparammo che quella tra mondo “libero” e mondo “socialista” era una falsa contrapposizione; che in realtà le due megapotenze, USA e URSS, avevano messo insieme un sapiente teatrino basato sul gioco delle parti allo scopo di dividersi il mondo spartendosene l'egemonia e render impossibile qualunque cambiamento; ch'erano possibili, anzi necessarie, sia una “terza via” socioeconomica in grado di mediare tra capitalismo e collettivismo, sia una “terza forza” tra i due colossi statunitense e sovietico. Per questo, c'era (c'è) bisogno di un'Europa forte, unita, conscia della propria identità. Su questa strada, intrapresa da noi “ragazzi degli Anni Quaranta” che sull'esempio di Thiriart fondammo in Italia la “Giovane Europa”, siamo stati seguiti dai “ragazzi dei Cinquanta-Sessanta”, che con rigore e cultura più solidi dei nostri, sotto la guida di un intellettuale e studioso della lucidità di Marco Tarchi e seguendo il modello di Alain de Benoist, dettero vita fra il terzultimo e il penultimo decennio del secolo scorso alla “Nuova Destra”, poi trasformatasi in movimento di “Nuove Sintesi”. In tal modo venne affrontato anche l'equivoco-tabù del confronto destra-sinistra, che non ci aveva mai né convinti, né soddisfatti. Il nostro sogno e la nostra mèta consistevano nella liberazione della fantasia e al tempo stesso nella conciliazione metapolitica di tradizionalismo etico-storico-antropologico, socialità e patriottismo europeista. Quel che volevamo, era la costruzione di un disegno che traducesse in termini politici una sintesi di Donoso Cortès, Tolkien ed Ezra Pound.
Un sogno impossibile? Molto probabilmente sì. Sta di fatto che cominciammo col perdere la nostra battaglia nel e col MSI: dal quale non ci restava che uscire, noialtri a metà degli Anni Sessanta, Tarchi e i suoi qualche lustro più tardi. Nel mezzo c'era stato il Sessantotto; e c'erano stati i fatti di Valle Giulia, dove il MSI dei due “cordiali nemici” Almirante e Caradonna aveva mostrato il suo vero volto ottuso e forcaiolo. Eppure, se avessimo mantenuto la nostra presenza e le nostre posizioni all'interno di quel partito, forse ci avrebbero comunque cacciati, ma forse non ci sarebbero invece stati né Fiuggi, né AN, né l'alleanza col berlusconismo corrotto e corruttore, né il PdL. Forse la stessa politica italiana qual è oggi sarebbe stata diversa. E, soprattutto, sarebbe magari davvero nato il partito sognato da Roberto Mieville, da Primo Siena, da Beppe Niccolai, da Adriano Romualdi. Ma i ragazzi di Mordini, come più tardi quelli di Tarchi, hanno fallito. Le conseguenze del nostro fallimento sono sotto gli occhi di tutti.
Eppure, nonostante tutti non mi pento, non mi vergogno, non rimpiango nulla, non mi arrendo. Amo sconfinatamente la politica: anche se essa non ha mai amato me e mi ha obbligato all'Impoliticità perpetua. Certo, se l'amore reciproco non è nato, è stato anche e soprattutto per colpa mia. Avrei potuto fare altrimenti: ma a prezzi morali troppo alti. Non me la sono sentita di pagarli: forse a causa dell'educazione cattolica, forse per onestà, forse soprattutto per superbia. Il partito che sognavo a occhi aperti non è d'altra parte mai nato: probabilmente per la buona ragione che avrebbe incarnato un paradosso politico impossibile, e non poteva quindi nascere.
Il mio destino è di aver scelto giovanissimo un partito che mi andava stretto e di non averne poi trovato più nessun altro, restandone privo da ormai quasi mezzo secolo. Eppure ho sofferto questa privazione: non mi ci sono mai abituato perché rimango un uomo disperatamente di parte, un fazioso feroce come il mio concittadino Alighieri. Il mio partito, la mia Isola-Che-Non-C'è, l'ho visto balenare qua e là nella storia, nei luoghi e nei contesti più ossimoricamente improbabili e contraddittori: sulla piana di Roncaglia nel 1154, a Montaperti nel 1260, in Vandea tra 1792 e 1793, tra il Palazzo d'Inverno e Piazza San Sepolcro fra 1917 e 1921, pochi mesi d'estate nella Spagna del '36, qua e là nelle sierras attorno al “Che”. A settantun anni, resto un “Cattivo Maestro” che si meriterebbe solo Pessimi Scolari, come il ragazzaccio Franti. Ricordate?: “...e l'infame sorrise”. Quel sorriso impaurisce e scandalizza ancora i benpensanti tartufi di tutto il mondo. Qua la mano, vecchio infame compagno: tu sì che mi capisci. Siamo della stessa pasta.
Inserito da Seym Levin il 01/04/2012 12:40:27
Giorgio La Pira? No grazie.Una indimenticabile intervista del sindaco santo e spendaccione (quant'altri mai)rilasciata a Gianna Preda ebbe però il merito di far cadere il governo Fanfani, antesignano dell'inciucio tra democristiani e social comunisti.
Inserito da italo il 24/12/2011 03:48:01
Caro Cardini,le invio dall'australe Cile, tutta la mia solidarietà con immutata stima. Il nostro Attilio, dall'aldi là - questo riguardo - fiorentinamente ripeterebbe: " Non ti curar di lor, ma guarda e passa". Primo Siena (primosiena@mi.cl)
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