Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
vrete tutti presente l’incisione di Albrecht Dürer intitolata “Il cavaliere, la morte e il diavolo”, bene: per tanti di noi non è solo un’opera d’arte, ma un manifesto, una rappresentazione simbolica di uno stile di vita, un dettato emblematico per intendere l’esistenza. Il filosofo Edmund Husserl ne teneva una copia nel suo studio. Il cavaliere, nella particolare e personale lettura che del quadro ne forniva, avrebbe rappresentato la fenomenologia. Per me, che negli anni Settanta ne comprai una copia-poster (fin ora sopravvissuta intonsa a tutti i traslochi) presso la Libreria Europa di Roma (luogo di formazione indimenticabile e indimenticato), molto più banalmente quel cavaliere era la figura alla quale avrei dovuto tendere, l’obiettivo che mai avrei dovuto tradire. Un monito che ancora oggi porto nel cuore, tanto che - forse fanciullescamente - è l’immagine del desktop del mio computer (che nemesi per Dürer, eh?).
Per l’iconografia ufficiale, il cavaliere tanto denso di simboli e allegorie, si dovrebbe ispirare alla figura del soldato cristiano, il Miles christianus di Erasmo da Rotterdam. E’ chiuso nell'armatura della fede, che gli permette di avanzare impavido nonostante l'orribile morte, che tenta di spaventarlo mostrandogli una clessidra col tempo di vita che gli è rimasto e il mostruoso diavolo - con le fattezze grottesche di un incrocio di animali cornuti - che lo segue impugnando un'alabarda.
Dall'effetto di prospettiva aerea nella lontana città sul picco, schiarita per effetto della foschia, ai ritratti del cane da caccia, della salamandra e della boscaglia, si evincono altri significati allegorici complessi, mentre è più chiaro il memento mori di un teschio in basso a sinistra dell’incisione dove si trovano il monogramma dell’autore e la data dell’opera, 1513.
Ultimamente gli amici di Barbadillo.it e quindi Marcello Veneziani, del cavaliere di Dürer ne hanno parlato per rievocare, i primi gli scritti e la figura di Dominique Venner, l’altro quella di Jean Cau (uno scrittore notevole e notevolmente dimenticato), dacché all’opera, o forse per dirla più puntualmente ai significati (e ai significanti) dell’incisione, si sono entrambi esplicitamente ispirati.
Veneziani sostiene, non a torto, che “Il cavaliere di Dürer, riletto da Cau, costituì un breviario del pessimismo eroico che animò la gioventù di destra degli anni settanta. Era la cultura aristocratica della nobile sconfitta, eroica e disperata - ha scritto - che si nutriva dell'Autarca di Evola e dell'Anarca di Jünger, il ribelle che passa al bosco”, ma in verità è l’opera stessa, come matrice originale, ad aver pervaso le coscienze e fornito senso estetico (quindi forma) a un’idea di esistenza che a mio avviso sarebbe stata disperata davvero, se non avesse avuto tali riferimenti, tali non omologanti e ardenti (non)consolazioni.
E’ una promessa imperitura di fedeltà che si fa verso la bellezza: sommo conforto e struggimento individuale che germina la parte collettiva della nostra singola anima, verso forme di compassione e riconoscimento collettivo. E’ uno dei pilastri sul quale si sugella il patto (a volte tacito e silenzioso) con tutti coloro che, come noi, sanno e hanno voluto riconoscere questa bellezza e a questa, in ultima istanza, si affidano.
Certo, gli amici più avveduti ti mettono in guardia che tale incedere - quello del cavaliere e quello tuo che a lui guardi come esempio - è un trionfale e solitario viatico verso il nulla, ma niente - perdonate il bisticcio - è più pieno del Nulla. “Il Nulla - avverte Gomez Davila - è l’ombra di Dio” e non mi si distragga parlando in modo terroristico del nichilismo.
Non ci provate nemmeno. Soprattutto se il “pieno”, se l’andare verso un orizzonte di certezze significa pacificazione materialistica, compromesso ideologico, quiete beota. Se ha come ricompensa il confondere la propria voce al balbettio di una modernità che non solo ci esclude, ma non ci appartiene. Se significa accettare questo tempo contemporaneo che da post-moderno è divenuto irreversibilmente post-umanista, anzi anti-umanista.
Lentamente e senza tragedia la vita consapevole, in questo Secolo, è diventata attesa. L'imperativo della verità s'è inabissato nel nulla (questo sì, vuoto) dei nostri gesti ripetuti e stanchi, è sprofondato nel relativo assoluto e accomodante dei nostri piccoli, muti lutti quotidiani.
Ma possiamo scegliere ancora di immolare l’esistenza alla nostra miseria e alla nostra straordinaria grandezza, cercare la gioia nel sacrificio della consapevolezza, credere senza illusioni e preferire il digiuno alle piccole morali da consumare quotidianamente come un qualsiasi pasto veloce. A noi rimane ancora la possibilità di essere umani fino in fondo, incarnando il nostro credo e nello stesso tempo tutto il Creato (far fluire in noi come fosse sangue i fiumi tutti e il mare, inghiottire nelle nostre viscere la Terra, il sole e la luna nella nostra mente e anche le stelle).
Possiamo oramai, dunque, saltare l'uomo per dialogare direttamente con l'esistenza: dalla vertigine del vuoto apparirà, probabilmente, un Dio ammantato della stessa nostra diabolica solitudine, al quale non bisognerà chiedere più niente.
Non siamo la verità, ma nel nostro silenzio la manifestiamo. Siamo il passaggio dal possibile al reale, non siamo la verità: a modo nostro, siamo soltanto la vita. La nostra vita. Noi ad un passo dall'oblio capimmo: l'attesa è il dono del tempo, ogni cosa che sfugge, prova l'Eterno.
Forse siamo diventati mostri di carne e ferro, proprio come il Cavaliere di Dürer. Ma anche uomini siamo, ancora lo siamo col cuore gonfio di speranze. Uomini aggrappati al nostro io, testimone e scrigno di un onore inviolabile, unico vero antidoto all’omologazione e al nichilismo della rassegnazione. Un io che è ancora - basta volerlo - un noi.
Inserito da Dalmazio il 13/09/2013 20:33:10
Plaudo. Si potrebbe dire di più, molto di più, ma non sarebbe compreso. Va bene così
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