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Strani compagni di strada

Bottai e il sodalizio con Rosai da Strapaese a Critica Fascista

Affini eppure assai diversi giunsero ad una confidenza amicale di grande intensità

di Ivan Buttignon

Bottai e il sodalizio con Rosai da Strapaese a Critica Fascista

Nel Regime fascista, Giuseppe Bottai risale agevolmente la china del successo pubblico. Diventa deputato, poi sottosegretario e quindi Ministro delle Corporazioni, e dulcis in fundo, Ministro dell’Educazione Nazionale.

L’artista a tutto tondo e manganellatoredella prima ora Ottone Rosai, invece, non fa alcuna carriera.

Per fortuna il successo non sempre dà alla testa e il gerarca fascista Bottai rimane vicino all’amico rivoluzionario in odore di eresia Rosai. L’autentico affetto vale più di mille carriere, e in fondo anche Bottai resta il vecchio rivoluzionario di sempre. Si ritrovano spesso a parlare nel laboratorio pittorico di via Toscanella, attorniati dai quadri di Ottone, pieni di soggetti emarginati e refrattari[1].

Bottai sostiene la strapaesana rivista “Il Selvaggio” – della quale Rosai è tra i più importanti riferimenti artistici e culturali - perché crede, dopo aver sciolto qualche riserva per la verità, a quel particolare progetto politico-culturale. I suoi interlocutori sono appunto Rosai, l’ideologo Ardengo Soffici e ovviamente il capo del movimento Mino Maccari.

Nati nello stesso anno, Bottai e Rosai moriranno entrambi poco più che sessantenni, dopo trent’anni di sodalizio.

Bottai si avvicina infatti a “Strapaese” in occasione dell’inaugurazione della “Stanza del Selvaggio”, del ‘27. E’ lì che impara a conoscere direttamente il movimento maccariano. Ed è lì che gli riserva forti parole di elogio; parole che Maccari subito pubblica su “Il Selvaggio”.

Bottai parla a nome del Governo:

“La piccolezza del luogo è compensata dalla sicurezza, che il Governo ha, di non essere chiamato ad avallare cambiali di mestieranti incalliti nel vizio e nella frode... Non si può essere onesti in politica e disonesti in arte. Il Fascismo ha operato una tale stretta e disinteressata solidarietà tra arte e politica, che i suoi uomini avranno un giorno il diritto di mettere sotto processo chi, ancora oggi, munito magari di una tessera, sporca l’arte in nome della politica e rende nauseante la politica in nome dell’arte... C’è odor di paese, anzi di Strapaese. Non è arte che s’inurba; è, anzi, arte che, nemica, si accampa nel cuore delle nostre città e grida contro il gusto dei brutti palazzi, dei brutti monumenti, sotto cui si vuol soffocare l’autentica e nuova bellezza. Arte selvatica, dunque, arte di chi vuol salvare il suo spirito in una superiore armonia della coscienza nazionale”[2].

Bottai, così, non perde occasione per ammonire alcuni falsi fascisti, secondo un’implicita tesi di fondo che lo accomuna con gli strapaesani. Riconosce a nome del Governo il ruolo culturale del gruppo intellettuale. E questo, considerando i contrasti tra Strapaese e il Potere, non è poco[3].

Ed è così che il “tiepido romano” Bottai stringe amicizia con il “selvaggio provinciale” Maccari e tutto il suo gruppo, Rosai in testa. Amicizia forte e lunga, che solo la tragedia italiana saprà sbiadire[4].

Il 10 gennaio 1927 l’allora sottosegretario del Ministero delle Corporazioni Giuseppe Bottai scrive all’amico Ottone per proporgli una rubrica sul suo foglio “Critica fascista”[5].

Meno di due mesi dopo, il 2 marzo, Bottai si abbandona in confidenze emotive, quelle che si concedono solo agli amici più intimi. Si qualifica “un povero diavolo d’uomo, che nella politica ci si trova per quel tanto - o poco - ch’essa è fervore, entusiasmo, onestà di pensiero, illusione - magari illusione - creativa e ci si perde, invece, per quel ch’essa ha d’amaro, d’insoddisfacente, di delusorio”[6].

E lì parla del suo senso di solitudine che lo attanaglia, della sfiducia che prova verso se stesso[7]. Ma spiega anche qual è la cura a questo tormento: “tu, Soffici, Maccari e tutti siete una cara compagnia che mi dà uno strano conforto. La fiducia ch’ho di voi finisce col diventare una fiducia mia, verso me stesso. Mi capisci? Credo di sì. E allora non mi ringraziare”[8].

Ecco che cosa rappresentano per Bottai gli strapaesani: veri amici, l’isola di salvezza di un politico di professione inghiottito dal senso di vuoto. E gli amici vanno aiutati; così passa al sodo: “Ho scritto a Soffici del mio colloquio col Duce intorno al Selvaggio. Ne sarete tutti contenti. Mussolini - nonostante certi abbandoni - è un uomo per cui si lavora bene. L’articolo di Soffici sulle Corporazioni è piaciuto molto. Anche per questa cosa si vincerà - con molta pazienza. Compatite anche me, se non riesco sempre a marciare rapidamente come vorrei. Comincia a scrivere per Critica. Anche Maccari, Lega e gli altri dovrebbero scrivere”[9].

Questo passaggio evidenzia almeno due aspetti, entrambi rilevanti. Anzitutto, Bottai sprona gli strapaesani a farsi avanti, scrivere, anzitutto sul suo giornale “Critica fascista”, così da avvicinarli al Duce, con il quale spende spesso parole generose. Poi, palesa unadisillusione a metà. Quando asserisce che “si vincerà - con molta pazienza” Bottai dimostra, almeno a parole, la sua fede al fascismo “nonostante certi abbandoni” del Duce.

Ma l’obiettivo della rivoluzione, ormai, non è più dietro l’angolo e il direttore della “Critica Fascista” ben lo sa. Il 28 ottobre del 1922 è acqua passata che mai più tornerà.



[1] V. Corti (a cura di), La nudità dei sogni. La lunga amicizia tra Giuseppe Bottai e Ottone Rosai, I fogli del geranio, 2, Novara, 1995, p. 6.

[2] “Il Selvaggio”, 3 marzo 1927.

[3] M. Cappelli, A ruota libera da Strapaese a Stracittà sul filo del Mino Maccari paradosso, Cantagalli, Siena, 1996, p. 28.

[4] G. Callaioli, Mino dal Colle. L’”impolitico” di Strapaese, Petrartedizioni, Pietrasanta (LU), 1998, p. 136.

[5] V. Corti (a cura di), La nudità dei sogni. La lunga amicizia tra Giuseppe Bottai e Ottone Rosai, cit., pp. 3-4.

[6] Ibidem, p. 4.

[7] Ibidem, p. 5.

[8] Ibidem, p. 6.

[9] Ivi.

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