Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Nel Regime fascista, Giuseppe Bottai risale agevolmente la china del successo pubblico. Diventa deputato, poi sottosegretario e quindi Ministro delle Corporazioni, e dulcis in fundo, Ministro dell’Educazione Nazionale.
L’artista a tutto tondo e manganellatoredella prima ora Ottone Rosai, invece, non fa alcuna carriera.
Per fortuna il successo non sempre dà alla testa e il gerarca fascista Bottai rimane vicino all’amico rivoluzionario in odore di eresia Rosai. L’autentico affetto vale più di mille carriere, e in fondo anche Bottai resta il vecchio rivoluzionario di sempre. Si ritrovano spesso a parlare nel laboratorio pittorico di via Toscanella, attorniati dai quadri di Ottone, pieni di soggetti emarginati e refrattari[1].
Bottai sostiene la strapaesana rivista “Il Selvaggio” – della quale Rosai è tra i più importanti riferimenti artistici e culturali - perché crede, dopo aver sciolto qualche riserva per la verità, a quel particolare progetto politico-culturale. I suoi interlocutori sono appunto Rosai, l’ideologo Ardengo Soffici e ovviamente il capo del movimento Mino Maccari.
Nati nello stesso anno, Bottai e Rosai moriranno entrambi poco più che sessantenni, dopo trent’anni di sodalizio.
Bottai si avvicina infatti a “Strapaese” in occasione dell’inaugurazione della “Stanza del Selvaggio”, del ‘27. E’ lì che impara a conoscere direttamente il movimento maccariano. Ed è lì che gli riserva forti parole di elogio; parole che Maccari subito pubblica su “Il Selvaggio”.
Bottai parla a nome del Governo:
“La piccolezza del luogo è compensata dalla sicurezza, che il Governo ha, di non essere chiamato ad avallare cambiali di mestieranti incalliti nel vizio e nella frode... Non si può essere onesti in politica e disonesti in arte. Il Fascismo ha operato una tale stretta e disinteressata solidarietà tra arte e politica, che i suoi uomini avranno un giorno il diritto di mettere sotto processo chi, ancora oggi, munito magari di una tessera, sporca l’arte in nome della politica e rende nauseante la politica in nome dell’arte... C’è odor di paese, anzi di Strapaese. Non è arte che s’inurba; è, anzi, arte che, nemica, si accampa nel cuore delle nostre città e grida contro il gusto dei brutti palazzi, dei brutti monumenti, sotto cui si vuol soffocare l’autentica e nuova bellezza. Arte selvatica, dunque, arte di chi vuol salvare il suo spirito in una superiore armonia della coscienza nazionale”[2].
Bottai, così, non perde occasione per ammonire alcuni falsi fascisti, secondo un’implicita tesi di fondo che lo accomuna con gli strapaesani. Riconosce a nome del Governo il ruolo culturale del gruppo intellettuale. E questo, considerando i contrasti tra Strapaese e il Potere, non è poco[3].
Ed è così che il “tiepido romano” Bottai stringe amicizia con il “selvaggio provinciale” Maccari e tutto il suo gruppo, Rosai in testa. Amicizia forte e lunga, che solo la tragedia italiana saprà sbiadire[4].
Il 10 gennaio 1927 l’allora sottosegretario del Ministero delle Corporazioni Giuseppe Bottai scrive all’amico Ottone per proporgli una rubrica sul suo foglio “Critica fascista”[5].
Meno di due mesi dopo, il 2 marzo, Bottai si abbandona in confidenze emotive, quelle che si concedono solo agli amici più intimi. Si qualifica “un povero diavolo d’uomo, che nella politica ci si trova per quel tanto - o poco - ch’essa è fervore, entusiasmo, onestà di pensiero, illusione - magari illusione - creativa e ci si perde, invece, per quel ch’essa ha d’amaro, d’insoddisfacente, di delusorio”[6].
E lì parla del suo senso di solitudine che lo attanaglia, della sfiducia che prova verso se stesso[7]. Ma spiega anche qual è la cura a questo tormento: “tu, Soffici, Maccari e tutti siete una cara compagnia che mi dà uno strano conforto. La fiducia ch’ho di voi finisce col diventare una fiducia mia, verso me stesso. Mi capisci? Credo di sì. E allora non mi ringraziare”[8].
Ecco che cosa rappresentano per Bottai gli strapaesani: veri amici, l’isola di salvezza di un politico di professione inghiottito dal senso di vuoto. E gli amici vanno aiutati; così passa al sodo: “Ho scritto a Soffici del mio colloquio col Duce intorno al Selvaggio. Ne sarete tutti contenti. Mussolini - nonostante certi abbandoni - è un uomo per cui si lavora bene. L’articolo di Soffici sulle Corporazioni è piaciuto molto. Anche per questa cosa si vincerà - con molta pazienza. Compatite anche me, se non riesco sempre a marciare rapidamente come vorrei. Comincia a scrivere per Critica. Anche Maccari, Lega e gli altri dovrebbero scrivere”[9].
Questo passaggio evidenzia almeno due aspetti, entrambi rilevanti. Anzitutto, Bottai sprona gli strapaesani a farsi avanti, scrivere, anzitutto sul suo giornale “Critica fascista”, così da avvicinarli al Duce, con il quale spende spesso parole generose. Poi, palesa unadisillusione a metà. Quando asserisce che “si vincerà - con molta pazienza” Bottai dimostra, almeno a parole, la sua fede al fascismo “nonostante certi abbandoni” del Duce.
Ma l’obiettivo della rivoluzione, ormai, non è più dietro l’angolo e il direttore della “Critica Fascista” ben lo sa. Il 28 ottobre del 1922 è acqua passata che mai più tornerà.
[1] V. Corti (a cura di), La nudità dei sogni. La lunga amicizia tra Giuseppe Bottai e Ottone Rosai, I fogli del geranio, 2, Novara, 1995, p. 6.
[2] “Il Selvaggio”, 3 marzo 1927.
[3] M. Cappelli, A ruota libera da Strapaese a Stracittà sul filo del Mino Maccari paradosso, Cantagalli, Siena, 1996, p. 28.
[4] G. Callaioli, Mino dal Colle. L’”impolitico” di Strapaese, Petrartedizioni, Pietrasanta (LU), 1998, p. 136.
[5] V. Corti (a cura di), La nudità dei sogni. La lunga amicizia tra Giuseppe Bottai e Ottone Rosai, cit., pp. 3-4.
[6] Ibidem, p. 4.
[7] Ibidem, p. 5.
[8] Ibidem, p. 6.
[9] Ivi.
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