Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Corrado nasce a San Luca di Calabria, provincia di Reggio, nel 1895, da Antonia Giampaolo, figlia di piccoli proprietari e da Antonio, maestro elementare, che si occupa della sua prima istruzione.
Si forma nel collegio dei Gesuiti di Mondragone e frequenta l’ultimo anno del Ginnasio nel collegio di Aurelia (Roma). Diciottenne, consegue la licenza liceale nel 1913 a Catanzaro e sei anni più tardi la laurea in Lettere all’Università di Milano. Partecipa alla Grande Guerra e durante una battaglia sul Carso viene ferito.
Inizia a scrivere i suoi primi libri Poesie grigioverdi (1917), La siepe e l’orto (1920) e L’uomo nel labirinto (1926). Al contempo termina gli studi e collabora con alla redazione del “Resto del Carlino”, oltre che al “Corriere della Sera” e alla “Stampa” di Torino.
Dopo qualche anno di gavetta in quei prestigiosi giornali, nel 1921 diventa corrispondente da Parigi de “Il Mondo” di Amendola e dall’anno successivo vi collabora direttamente dall’Italia e in chiave antifascista.
Nel 1926 saranno le autorità fasciste a inviarlo a Parigi, dopo la soppressione de “Il Mondo” da parte del Regime, ma egli rifiuta l’”invito”.
Dopo l’infelice chiusura de “Il Mondo” il 31 ottobre del ’26, Alvaro perde il lavoro anche al “Corriere della Sera”. E’ Ojetti, direttore della testata, ad allontanarlo. Alvaro scrive sul “Corriere” sin dal ’19, quando viene presentato da Borgese[1].
Con queste parole informa il giovane amico Frank della dipartita professionale: “Ojetti, che pure mi si è mostrato amico da tre anni, arrivato alla direzione non ha voluto riconoscere l’impegno. Ojetti adduce delle ragioni politiche”. E dopo i fatti ecco il commento: “Da questo fatti un’idea di questo tempo”[2].
Qualche lettera dopo sputa la sentenza: “E’ un animale, che si è rivelato ora che nessuno più sembra essergli di controllo e gli si legge nel cuore come in un carciofo”[3].
Infastidite le autorità, nel 1927 gli attacchi del Regime lo costringono a recarsi a Berlino, dove continua la sua attività di critico e di giornalista. Torna dalla Germania nel 1930, anno in cui esce il suo capolavoro Gente in Aspromonte, che da subito incontra pareri molto favorevoli da parte della critica letteraria.
Passano i mesi ma Alvaro continua a crogiolarsi nello sconforto e nella delusione. Sempre al collega Nino Frank scrive: “[…] E pensa che, con un solo articolo al mese, l’Ojetti, se fosse stato più umano, mi avrebbe fatto respirare”[4].
Dopo le brutte avventure a “Il Mondo” e a “Il Corriere della Sera” ad Alvaro rimane però una carta da giocare: “La Stampa”. Lo aspettano tanto lavoro e remunerazioni da fame, ma la testata è prestigiosa e di meglio non trova. E’ certo “un buon cittadino” secondo i resoconti prefettizi, ma in odore di antifascismo, cosa che il Regime non ignora affatto[5].
E’ il patron Massimo Bontempelli che gli garantisce il lavoro a “La Stampa”, gli fa pubblicare il suo primo romanzo L’uomo nel labirinto ma soprattutto lo coinvolge come elemento di spicco nel suo masterwork: “900”. Ed è così che Alvaro diventa segretario di redazione della rivista bontempelliana a Roma mentre il collega Frank lo diviene a Parigi[6]. Nel frattempo scrive su “Critica fascista” dell’amico Giuseppe Bottai assieme alle voci più autentiche della cultura nazionale ed europea[7]. Ecco il modo per sopravvivere nel Ventennio: qualche buon amico dell’establishment e la parvenza di adattarsi…
Siamo nel bel mezzo degli anni Venti. Il celebre foglio “Il Mondo”, soprattutto dopo la scelta aventiniana del suo direttore Giovanni Amendola, che diventa il capo ufficiale degli oppositori, vive una situazione oltremodo difficile.
Corrado Alvaro, che su “Il Mondo” scrive, così lamenta le implicazioni del sempre più pesante clima politico: “Noi, dal 3 gennaio a questa parte, coi sequestri e le misure di rigore e lo sviamento degli avvisi di pubblicità, abbiamo perduto ben due milioni e mezzo di guadagno”[8]. E in una lettera successiva: “Qui sono dieci giorni che al nostro giornale non è permesso uscire. La settimana prossima avremo probabilmente un decreto di sospensione. Mi pare che non ci sia più nulla da fare”[9].
Il 17 aprile del ’26 Amendola muore a causa delle ferite riportate da un’aggressione fascista. Lo stesso giorno “Il Mondo” resiste ai incessanti attacchi sferrati dal Regime.
Il 31 ottobre cessa le pubblicazioni, prima che la tristemente nota delibera del Gran Consiglio del Fascismo datata 11 novembre sopprima tutti i giornali antifascisti[10].
Alvaro, d’accordo con Frank, giudica “900” troppo “fascista”, tant’è che consiglia al capo di correggere il tiro. Che sia opportuno, chiede retoricamente il segretario di redazione di Roma, evitare altre fastidiose polemiche da parte francese? Quindi la proposta: “E’ necessario che qui non possano dirti: ‘Ecco, avevamo ragione, è proprio un organo di propaganda fascista’. Poiché, come conseguenza, avresti di nuovo un putiferio e le dimissioni di Joyce, Mac Orlan ecc.!”[11].
Alvaro, perfettamente in linea con Frank, pensa anche a un’edizione speciale con disegni colorati degli stessi autori, dallo stile grafico che ricorderebbe la rivista avversaria “Il Selvaggio”. Ma a causa dell’ingerenza dell’editrice “La Voce” il piano va in fumo[12].
Alvaro comincia ad allontanarsi dal progetto bontempelliano il 25 novembre 1928, quando da Berlino apprende del “rilancio” in lingua italiana della rivista.
La scrittura di Alvaro è tagliente, incisiva e sintetica come non lo è mai stata. Così, ironicamente,la descrive Bontempelli: “I tuoi pennini, Alvaro, hanno bucato la carta; bisogna strapparla e chinarsi a leggere sul legno del tavolino, ove lasci incisa…”[13].
Insomma, il distacco di Alvaro è palese e quanto scrive nel 1930 è un’ulteriore conferma: “Tornato dalla Germania, avevo calcolato bene che, in un paese come il nostro, di gente che ha un complesso di inferiorità anche nella cultura, tornare con una stima dall’estero, un editore, dei giornali aperti all’estero, mi avrebbe giovato per tornare a circolare e poter trovare lavoro”[14].
Terminato il secondo conflitto mondiale, Alvaro non ammette accuse circa il suo appoggio politico al Regime.
“Ero antifascista per temperamento, per cultura, per indole, per inclinazione, per natura… Non perdono che mi si dia del vile, quando nella mia vita ho fuggito sempre il sospetto della viltà, anche se posso essere caduto in qualche piccola viltà, come accade a tutti gli uomini, ma che mi rimorde. Non credo che un uomo vile possa raggiungere niente dalla vita. Odio la viltà perché diminuisce l’uomo, lo rende meno efficiente. Purtroppo la mia vita migliore è passata in un tempo in cui la viltà era di vigore”. Questa la risposta a Giacomo Debenedetti, che lo rimprovera per i suoi presunti compromessi e cedimenti politici[15].
L’ex collega Nino Frank vorrebbe scrivere su qualche giornale e chiede ad Alvaro un consiglio in questo senso. Lo scrittore calabrese non ha dubbi e lo indirizza verso “Il Mondo” e “La Stampa”. Di più: aiuta Frank ad approdare a “Il Mondo”, dov’egli è stato critico teatrale e cinematografico. Quasi un passaggio del testimone, un senso di continuità che da “Il Mondo” dell’indimenticabile Amendola giunge a “Il Mondo” dell’ex fascista – ma ora più che mai liberale – Pannunzio. Quest’ultima è, guarda caso, la rivista di riferimento di diversi ex strapaesani, gli avversari di un tempo, tra i quali proprio Mino Maccari.
Scrivere e Vincere
L’attività primaria di Alvaro è, a ben dire, la scrittura. Dopo diverse produzioni, sfonda con L'amata alla finestra nel 1929. La critica inizia seriamente a puntare gli occhi su di lui.
Il successo è presto bissato con Gente in Aspromonte, che ottiene il premio “La Stampa” nel periodo in cui la direzione del quotidiano è nelle mani di Malaparte. Proprio da corrispondente de “La Stampa”, Alvaro si reca in Russia, nel Vicino Oriente, in Germania, in Turchia, in Svizzera, in Francia e in Grecia.
Fortemente ancorato alla narrazione, pubblica un’opera significativa che parla dell’uomo moderno in qualità di vittima delle dittature, L'uomo è forte (1938), che com’è ovvio viene parzialmente censurato.
Tocca la punta più alta del suo successo nel 1940, quando gli viene conferito il Premio dell'Accademia d’Italia per la letteratura.
Tra il fatidico 25 luglio e l’8 settembre del ’43 dirige “Il Popolo di Roma”, ma successivamente si rifugia a Chieti, dove per sfuggire alle persecuzioni nazi-fasciste assume il nome di Guido Giorgi.
“II Popolo di Roma”, la cui direzione era stata assunta da Corrado Alvaro, pubblica i biglietti che per anni si erano scritti il Duce e la favorita. Agli occhi della gente appare un volto nuovo di Mussolini, l’uomo forte del regime che invece fa il languoroso con Claretta e che sigla le sue lettere d’amore con un diminutivo da collegiale dell’Ottocento, Ben[16].
Nella Roma liberata costituisce assieme a Libero Bigiaretti e Francesco Jovine il Sindacato degli Scrittori e fonda pochi anni dopo la Cassa di Assistenza e Previdenza tra gli scrittori italiani cui è Segretario e Presidente.
La sua attività pubblicistica continua nel secondo dopoguerra e nel 1946 pubblica uno dei suoi più bei lavori, L’età breve, che solletica nuovi interessi tra la critica letteraria.
Nel 1947 assume la guida del “Risorgimento” di Napoli e si schiera decisamente a sinistra. Troppo a sinistra, secondo la linea piuttosto liberale e centrista del giornale, che di fatto lo costringe alle dimissioni. Continua però le collaborazioni con il “Corriere della Sera” e in qualità di critico teatrale a “Il Mondo”. Anche fuori dalla redazione di “Risorgimento”, Alvaro continua a credere nei principi e nei valori del processo risorgimentale. Interpreta anzi la crisi di valori del suo tempo come il frutto della involuzione dell’eredità storica del nostro Risorgimento, messo in crisi dal nuovo contesto storico.
In vista della disputa elettorale del 18 aprile 1948, e nel clima di aspra guerra civile che vi si innesta, lo scrittore calabrese si pronuncia per il Fronte Democratico Popolare e per tale motivo viene licenziato dal “Corriere della Sera”[17].
Nel 1951 guadagna il premio Strega grazie al suo libro Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, del 1950. La produzione torrenziale di Alvaro non si ferma: nel 1952 pubblica Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea e nel 1955 Settantacinque racconti.
In procinto di ultimare altri romanzi, un male feroce e inesorabile lo stronca il giorno 11 giugno del 1956. Viene così sepolto come da suoi desiderata, lontano dal caos cittadino, nella tranquilla cittadina di Valleranno, in provincia di Viterbo.
Molteplici le sue opere postume: Belmoro (1957), Mastrangelina (1960), Tutto è accaduto (1961). Nel 1957 esce inoltre un omaggio di letterati amici e ammiratori: Omaggio a C. Alvaro, una estratto di validi contributi per la comprensione delle opere e della personalità dello scrittore calabrese.
[1] G. Giacalone, La Pratica della Letteratura Novecento. Guida Modulare alla storia della letteratura Italiana, Antologia Tomo II, Fratelli Ferraro Editori, 1997, pp. 747-752.
[2] Carteggio Alvaro, lettera 7 del 25 marzo 1926, in C. Alvaro, M. Bontempelli, N. Frank, Lettere a “900”, a cura di Marinella Mascia Galateria, Bulzoni Editore, Roma, p. XVIII.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Ibidem, p. XIX-XX.
[6] Ibidem, p. X, n. 22.
[7]F. Grisi, Fascisti eretici, Solfanelli, Chieti, 2009, p. 25.
[8] Carteggio Alvaro, lettera 7 del 25 marzo 1926, in C. Alvaro, M. Bontempelli, N. Frank, Lettere a “900”, a cura di Marinella Mascia Galateria, Bulzoni Editore, Roma, p. XVII.
[9] Ibidem, p. XII.
[10] Ibidem, p. XVII-XVIII.
[11] Ibidem, p. XXII.
[12] Ivi.
[13] In “Interplanetario”, Roma, 1° febbraio 1928.
[14] C. Alvaro, Quasi una vita, Bompiani, Milano, 1950, p. 933.
[15] C. Alvaro, Ultimo diario, Bompiani, Milano, 1959, p. 216.
[16] A. Spinosa, Mussolini. Il fascino di un dittatore, Mondadori, Milano, 2007, p. 274.
[17]Vale ricordare che in virtù dello stesso proposito il Prof. Luigi Russo è estromesso dalla Scuola Normale di Pisa. O. Lizzadri, Il socialismo italiano dal frontismo al centro sinistra. Il filo rosso di una politica unitaria, Lerici, 1969, p. 82.
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