Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Francamente non ne sentivamo la mancanza, tanto che vorremmo chiedere i danni a Ferruccio De Bortoli, accorto e azzimato direttore del Corriere della Sera, essendo lettori mattinieri del quotidiano di via Solferino. Ma come si fa, dico, in tempi in cui un gelido vento siberiano “fischia” dai Monti sulle nostre teste, e tasche, congelando ogni speranza, a sparare in prima pagina un urticante, articolo dell’ex ministro dell’Economia, deputato del Pdl, Giulio Tremonti, nel quale ci invita a stringerci a coorte, nemmeno fosse un epigono di Mameli.
“L’impressione è che alcuni partiti intendano gestire il futuro prossimo delegando, logorando, aspettando che i sondaggi gli aprano una finestra di opportunità”, sostiene il commercialista della Lega, slegato ormai da tutti i partiti, “per tornare a sbattere. Il bipolarismo è stato inventato per il governo della normalità. Si stenta ancora a capire che siamo in guerra: la guerra del debito pubblico. Come ci siamo “uniti” quarant’anni fa per sottoscriverne a fin di bene la cambiale, così ora dobbiamo unirci per provare ad onorarne la scadenza”.
Ma che bravo il Giulietto. Ora che sta alla finestra pontifica, scordandosi che l’altro ieri era lui a dirigere il traffico dell’economia di casa nostra. Non pago del pistolotto moralisteggiante, Tremonti parte dalla storia della Repubblica che comincia senza debito pubblico, “spazzato via dalla sconfitta in guerra e dalla grande inflazione”, per approdare agli anni Settanta, quando “il costo sociale della modernizzazione in atto nel nostro Paese fu finanziato con spesa pubblica fatta in deficit”. Una “politica illuminata”, spiega l’ex ministro, che “degenerò solo negli anni successivi, prima incrociando la grande inflazione che, facendo lievitare i tassi di interesse, costrinse l’Italia a indebitarsi per pagare gli interessi sul suo debito; poi ancora incrociando e alimentando la corruzione politica”.
Già la corruzione politica. Mani pulite ieri l’altro, Abruzzo e Protezione civile ieri e oggi chissà. Perché c’è anche un oggi di cui non si parla, ma del quale si avverte il nauseabondo olezzo di tangenti, pagate da tangentari senza padre né madre. La casa di Marco Milanese cos’era, un ghirigoro in cielo?
Più facile sostenere che siamo un Paese di evasori. Un Paese dove “più si spendeva a debito, più voti si prendevano”, spiega con la sua solita supponenza Tremonti. “Peggio si spendeva, più preferenze si prendevano. È così che fu firmata una cambiale col diavolo. È così che fu aperta la fabbrica del debito pubblico. È così che la democrazia italiana degenerò in democrazia del deficit”. Così si arriva alla “prima scadenza” della “cambiale del debito pubblico”, prosegue Tremonti, determinando la fine della Prima Repubblica e ora la fine della Seconda Repubblica, “proprio per effetto del debito pubblico”.
Ma non era stato Antonio Di Pietro e il Pool di Mani pulite a far saltare il banco? No, per Tremonti il paradosso è arrivato con l’esplosione della crisi. “Prima gli Stati occidentali hanno senza condizioni salvato la finanza. Oggi è la finanza che senza pietà attacca gli Stati sui loro debiti pubblici, mettendoli in drammatica competizione tra di loro”. In questo frangente, osserva Tremonti, “se la politica, se la nostra democrazia non è capace di aprire il cantiere del cambiamento costituzionale, allora possiamo dire che è davvero a rischio”.
Ma va? Ma soprattutto da che parte sta Tremonti? E quello che era al governo era il suo gemello diverso o cos’altro? Non era lui che predicava il rigore dei conti e tagliava a tutti, con l’accetta, non conoscendo la parola crescita e sviluppo? Il ragionamento sulla finanza e sul debito avrà anche un suo perché, ma è l’insieme che non torna. In nome di cosa dovremmo unirci oggi? E, soprattutto, che tipo di costituente va vagheggiando Tremonti? Non è con le dotte dissertazioni che si esce dalla palude del debito pubblico, ma un con radicale taglio dei costi della politica e con una considerevole riduzione del peso dello Stato. Ecco, su questo punto forse ha ragione Tremonti: occorre aprire il cantiere del cambiamento costituzionale. Inizi lui, rinunciando a benefit e vitalizi.
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