Quando si chiamava Pci
La sinistra sempre a metà fra rivoluzione e istituzione
Già dopo il 1947 il Partito comunista tiene agganciata a sé la simpatia delle masse senza urtare frontalmente la “borghesia”.
di Ivan Buttignon
Stati Uniti, gennaio 1947. Alcide De Gasperi, Capo del Governo, incassa un prestito, poco più che simbolico, di 100 milioni di dollari. E la fiducia americana, che vale molto di più.
La somma è tutt’altro che regalata. È il 13 maggio quando il Presidente del Consiglio compila la cambiale “in bianco firmata” da Washington, dimettendosi.
La formula del governo unitario dei tre partiti maggiori è andata in crisi, così almeno si dice,. La Democrazia Cristiana si prepara a costituire un nuovo governo ripulita da comunisti e socialisti filo-comunisti
[1]. Detto fatto, il 1° giugno giura il IV gabinetto De Gasperi.
La DC è in compagnia del Partito Liberale Italiano, formazione risorgimentale di destra antifascista, del neocostituito Partito Socialista dei Lavoratori Italiani di Saragat e dell’ormai storico Partito Repubblicano Italiano (fondato a Bologna nel 1895 ma di fatto già attivo dal 1861). La fiducia ottenuta, il 21 giugno, sancirà una nuova epoca politica chiamata “centrismo”, che durerà una decina d’anni.
In questa ottica di isolamento delle sinistre è interessante conoscere le loro reazioni.
A Milano si svolge il Congresso dei Consigli di gestione, le strutture sindacali rosse interne alle aziende. Congresso che nei propositi del PCI “dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero”
[2]. Il Congresso riesce imponente e si svolge in un clima che ai comunisti pare intriso di speranze. Il capitalismo sembra essere giunto all’apice delle sue contraddizioni. Per giunta sta portando alla catastrofe il Paese. E arrivato quindi il momento di sostituirsi alla classe dirigente? Macché. E’ proprio questo, come ben precisa Giorgio Galli, l’obiettivo che il PCI evita in tutti i modi di raggiungere
[3].
Questo atteggiamento ben si riflette su scala nazionale. Nell’autunno del 1947 la politica del PCI sterza. Inizia la nuova fase di partito d’opposizione. Dalla cogestione del potere si passa alla guerra antigovernativa. Questa svolta si colora subito di scioperi tumultuosi, manifestazioni di strada, attacco alle sedi dei partiti, dal PSLI al MSI. Tutto ciò che non è Fronte Democratico Popolare rappresenta un nemico. Gli stessi saragattiani non risparmiano parole violentissime nei confronti dei comunisti. Si parla di inchiodarli al muro, anche fisicamente.
Il 23 novembre la nuova politica comunista raggiunge l’apice. La rivolta generalizzata culmina con l’occupazione della Prefettura di Milano. Migliaia di operai soprattutto comunisti ma anche socialisti, agli ordini di Giancarlo Pajetta, si oppongono alla sostituzione del prefetto Troilo, ex comandante partigiano. A sostituirlo è un funzionario di carriera, eredità del passato regime fascista. Ed è designato dal Ministero dell’Interno Mario Scelba, già inviso alle sinistre.
Proprio Scelba, che da Roma chiama la Prefettura, si sente rispondere da Giancarlo Pajetta. Il leader comunista è entrato scortato da squadre con giubbotti militari e mitra in pugno.
La situazione è delicata e l’azione non va interpretata come la riscossa di qualche fanatico. Il suo carattere è generale e coinvolge anche le istituzioni. Il sindaco socialista Antonio Greppi (nominato dal CLNAI) e 156 sindaci dei Comuni dell'hinterland milanese si dimettono in massa per protesta. Persino settori del mondo cattolico considerano l’operato di Scelba un sopruso e parteggiano per i dimostranti. Insomma, stando a quanto spiega Giorgio Galli, si fa sul serio
[4].
Ed è proprio questa determinatezza che cozza con gli sviluppi delle due vicende. Nel congresso dei Consigli di gestione i comunisti prendono una decisione tutt’altro che rivoluzionaria. Stabiliscono che questi istituti (che vedrebbero i rappresentanti dei lavoratori cogestire le imprese con quelli padronali) vanno costituiti solo nelle aziende con almeno 200 dipendenti. Viene così esclusa l’applicazione in quelle più piccole. La “media borghesia” può così tirare un sospiro di sollievo.
Una sorte simile tocca alla “guerra di Troilo”. Guerra che si risolve con la vittoria del Governo che ottiene lo sgombero della Prefettura e la sostituzione del funzionario.
La capitolazione delle energie rivoluzionarie non stupisce. Già nella mozione finale del Congresso, dove si parla di un “fronte del lavoro, della pace, della libertà” ben si coglie l’indirizzo del PCI. Quello cioè di spostare le tensioni su un terreno meno cruento. Difendere la libertà significa anche proteggere e tutelare le istituzioni, che non vanno quindi abbattute. Ciò traspare anche dalle considerazioni della Direzione del partito, che recitano “deve pur farsi attenzione a che la lotta contro le manifestazioni di opportunismo non faccia che chiudere gli occhi davanti ai fenomeni di estremismo infantile e massimalista che staccano il partito dalle masse e rendono la sua azione inefficace (tendenze a considerare che ormai non vi sia più altro da fare che “menare le mani”, radicalismo verbale e passività e opportunismo di fatto, ecc.)
[5].
In altre parole il Partito comunista tiene agganciata a sé la simpatia delle masse senza urtare frontalmente la “borghesia”.Il tutto, chiaramente, sotto l’egida di Mosca, che preferisce la via moderata alle pericolose reazioni di Washington.
I comunisti dimostrano comunque di rappresentare una forza d’urto e dal largo sostegno, e di compiere scelte politiche concrete, mettendo da parte i tratti più utopistici dell’ideologia. Come sostiene Giorgio Galli “ora che si è fornita una prova di forza, si suggerisce di attenuare lo slancio per non compromettere il successo elettorale, per conseguire il quale bisogna tranquillizzare i ceti medi dopo averli impressionati con la dimostrazione che gli operai sono sempre pronti a scendere in piazza
[6].
Il PCI mostra i muscoli e le forze anticomuniste rimangono impressionate. L’obiettivo, al momento, è raggiunto.
L’anno successivo, invece, segnerà un cambio di direzione. I comunisti inizieranno a masticare, uno dietro l’altro, i frutti amari della tensione tra i due blocchi.
Il colpo di Stato a Praga sancirà la definitiva presa del potere da parte del partito comunista. A pochi giorni dall’evento Marshall, in un discorso all'Università di Berkeley, affermerà che lo stanziamento di 176 milioni di dollari a favore dell'Italia verrà meno nel caso di una vittoria elettorale dei social-comunisti del Fronte Democratico Popolare. A questo punto prenderanno forma i fatti meglio noti come il Blocco di Berlino Ovest.
Di lì a poco nel Vicino Oriente Israele e gli Stati arabi si scontreranno.
Una profonda rottura diplomatica segnerà anche i rapporti tra Belgrado e Mosca. Il PCI e il PSI si schiereranno compatti con Stalin, ma a Trieste i comunisti si divideranno in due partiti, uno filo-jugoslavo, l’altro filo-sovietico. Il Fronte Popolare sarà sonoramente battuto il 18 aprile, data che passa alla storia come un plebiscito anticomunista.
L’attentato a Togliatti vibrerà una fortissima eco in tutto il Paese. La rivolta sarà ancora più accanita dei tumulti della “guerra di Troilo”, tanto che sfiorerà la guerra civile.
Nel ’48 il giro d’aria sarà micidiale. Grazie alle finestre aperte nel ’47, a partire dalle reazioni delle sinistre marxiste.
[1] G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Il Formichiere, Milano, 1976, p. 222.
[2] AA.VV., La politica dei comunisti dal quinto al sesto congresso; risoluzioni e documenti raccolti a cura dell’ufficio di segreteria del Pci, La stampa moderna, Roma, 1947, pp. 367-368.
[3] G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, cit., pp. 281-282.
[5] AA.VV., La politica dei comunisti dal quinto al sesto congresso; risoluzioni e documenti raccolti a cura dell’ufficio di segreteria del Pci, cit., p. 386.
[6] G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, cit., p. 282.