Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
n questi giorni di lutto per le vittime del nubifragio in Sardegna, si torna a parlare del territorio, ovviamente in termini di salvaguardia, di prevenzione, di gestione. Si lamenta la diffusa piaga dell’abusivismo edilizio, all’origine di molti dissesti ambientali; si ripete l’invettiva contro l’insipienza di politici e amministratori locali; si prende atto con sconforto – e malcelata rassegnazione – dell’inadeguatezza di norme e fondi necessari per mettere in pratica una politica del territorio all’altezza delle caratteristiche morfologiche, geologiche e climatiche dell’Italia.
Come sempre, nel nostro paese si parla (molto) e si fa (poco), e quel poco lo si fa soprattutto sotto la spinta degli avvenimenti, lasciando agli sventurati di turno il compito di salvarsi, in primo luogo, e poi di risollevarsi e di ricostruire, fino al prossimo terremoto, fino al prossimo, immancabile, disastro climatico e ambientale. Pochi ricordano che il suolo – una volta enfaticamente definito “patrio” – rappresenta la base simbolica ed effettiva dell’identità nazionale, della sovranità statuale, della solidarietà e continuità generazionale.
Il territorio, insomma, non è soltanto un dato naturalistico o una risorsa economica; esso, con il paesaggio, il clima e le opere dell’uomo connota la cultura di un popolo. Cosa c’è che non va dunque nel territorio italiano? Sarei tentato di rispondere: tutto quello che va al di là dei lasciti immeritati, pervenutici in successione dalle generazioni precedenti. Partiamo proprio dalla sovranità, il principio che legittima ogni istituzione statuale: è a tutti noto, fino al punto di costituire una premessa implicita di ogni discorso pubblico, che la sovranità territoriale su una parte importante del paese viene esercitata quotidianamente da quella che si conviene definire “malavita organizzata”, nell’assenza pressoché totale dello Stato.
Tutti sappiamo che a Scampia e a Quarto Oggiaro, nella Locride e in molte zone della Sicilia – tanto per limitarci a pochi esempi – nessun tutore dell’ordine oserebbe avventurarsi se non a plotoni affiancati, nel quadro di sporadiche, massicce operazioni di polizia. Addirittura, non è raro il caso di assalti ad alcuni avamposti o a gruppi isolati di militi, magari per impedire un arresto, dove la presa della criminalità è più forte anche in termini di consenso popolare.
E’ vero: ogni tanto si levano lamentele, indicando proprio questa latitanza “fisica” dello Stato, fra le cause della mancata crescita economica e dell’afflusso di investimenti stranieri; ma lo sdegno e la denuncia non sono sufficienti ad innescare provvedimenti organici e strutturali. Per non dire che nei casi in cui si è invocato l’impiego dell’esercito, si sono subito levate le voci indignate delle vestali del pacifismo e dell’antimilitarismo tous azimouth.
Ma, sempre in materia di gestione del territorio, c’è un’altra responsabilità diffusa, che non è soltanto dello Stato centrale, bensì di tutte le pubbliche amministrazioni decentrate e che si sostanzia nelle lacune e nelle storture dei piani regolatori, ma anche nella carenza di controlli, nel culto del consenso elettorale, fino ai casi limite delle connivenze col malaffare. Alla radice di questa piaga, va ravvisato il sistematico conflitto di competenze fra centro e periferie; ma l’addebito principale va mosso ai legislatori nazionali, che da sempre non sono stati in grado di fornire un quadro normativo idoneo a conciliare salvaguardia e valorizzazione del territorio. Vi sono aree dove, ad esempio, è semplicemente vietato, al privato, qualunque tipo d’intervento edilizio, quando è a tutti noto che dove tutto è vietato, nulla è vietato: il risultato sono le costruzioni selvagge sul greto dei fiumi e nei parchi archeologici, in prossimità delle zone vulcaniche e sulle rive del mare. Anche qui, in fondo, si tratta di cattivo o carente esercizio della sovranità.
Non va esente da responsabilità la politica, con un “discorso pubblico” dominato da una generalizzata condanna del “privato”, che si tratti di restaurare un monumento o di gestire la sgangherata rete di acquedotti, di intervenire nel deficitario settore dei trasporti o in quello delicato dell’istruzione. Senza contare il ruolo di certo ambientalismo arcaizzante, sempre pronto a bloccare le “grandi opere” necessarie a rimettere in moto la macchina produttiva del paese e perfino il corretto svolgimento dell’ordinaria amministrazione, che si tratti di un ponte o di una linea ferroviaria, di un termovalorizzatore o di una diga.
Insomma, la gestione del territorio e dell’ambiente non può essere immiserita in una visione negativa, di retroguardia, mentre il mondo intorno a noi, in primis in Europa, entra consapevolmente in quella modernità che muta di giorno in giorno. Esempio lampante, per la città-simbolo di Roma, è la pedonalizzazione di parte dei Fori imperiali, avviata per di più in assenza di un serio progetto organico, nel nome di una teorica salvaguardia del suo patrimonio storico e archeologico, unico al mondo, che però equivarrebbe a irrigidirla in un passato bucolico, in armonia con le tele del Poussin, con le greggi a pascolare sotto i ruderi. Il tutto mentre si bloccano i lavori per la “metro C” e la città soffoca nel traffico e nella cronica inefficienza del servizio pubblico di trasporti. Forse anche per quelli come me, che non hanno condiviso acriticamente, le ragioni del Futurismo, è venuto il momento di recuperare l’elogio della velocità e delle macchine.
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