Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Dicembre, una sera. La campagna profumava di un mare in burrasca, il vento sferzava la pelle, le luci della piccola stazione ferroviaria illuminavano l’unica banchina e il minuscolo giardinetto. C’era un che di allegro nell’aria: il Natale si avvicinava, grandi e piccoli si preparavano ai festeggiamenti.
Per Emma non era così. Era triste, con l’anima scura.
Il treno sbucò dal cielo nero, all’improvviso. I fari della locomotiva penetravano una natura placida e silenziosa, impietosamente. E lo stridore dei freni, mescolato al rintocco metallico della campanella del passaggio a livello, feriva il silenzio della sera. Emma salì, pochi viaggiatori erano sparsi qua e là, non le fu difficile trovare un posto tranquillo, lontano dal rischio di chiacchiere fastidiose. Voleva starsene in santa pace, e pensare alla giornata trascorsa e a quella che stava per arrivare. Trovò un posto a finestrino, incollò il suo sguardo al vetro alla ricerca dei suoi pensieri. Nel buio.
L’indomani avrebbe iniziato, nella sua città, un nuovo lavoro: un’attività di prestigio, niente più viaggi, un buono stipendio. Era soddisfatta sì, ma felice no, proprio no. Su quelle rotaie sembrava svanire il sogno vagheggiato fin dall’infanzia, insegnare. Lasciava i suoi ragazzi, lasciava quell’allegria che sa di gesso e di registri, di banchi sgangherati e compiti in classe. Delle lacrime che le riempivano gli occhi quasi non se ne accorse. Del dolore, invece, se ne accorse, eccome. Un pugno dentro lo stomaco, una morsa insopportabile. Due anni di scuola e di viaggi, due anni di nuove amicizie, due brevi amori. Un rimpianto deamicisiano, autentico e forte.
Emma aveva affrontato l’attività frenetica e stancante dell’insegnamento fuori sede, con entusiasmo ed allegria. E l’entusiasmo e l’allegria erano state le sue carte vincenti. I ragazzi l’avevano amata e lei li aveva ricambiati con un amore sincero e profondo.
Come Daniela.
Daniela era una ragazza sanguigna, di una bellezza piena, contadina. A scuola non era brillante, studiare non le piaceva. E non ne faceva mistero. Gli insegnanti non la vedevano di buon’occhio, incarnava il prototipo dell’alunno intelligente che non si impegna, quello che indispettisce. Anche Emma la guardava severa, le faceva rabbia che un’intelligenza come la sua, non fosse adeguatamente sfruttata e che, anzi, fosse gettata al vento.
Aveva trascinato l’anno molto malamente: pochissimo impegno, bassissimo rendimento. Che fare? Quindici anni sono un problema, si è tutto e niente, indifesi e aggressivi. Questo dicono i manuali di psicologia, ma formulare la diagnosi è elementare al confronto di quanto sia arduo ipotizzare una prognosi, trovando il modo di uscire dal garbuglio adolescenziale.
Emma era a sua volta giovanissima, per certi versi non ancora del tutto uscita da quella tempesta della vita che è l’adolescenza. Tutto avrebbe voluto fare fuori che dare dritte educative. Da vecchia barbogia. Cercava dentro di sé gli strumenti per riportare sulla strada della ragionevolezza quella ragazzina dal fare sfrontato. Al momento degli scrutini fu decisa: Daniela si sarebbe portata a settembre due materie, storia e geografia. Non latino, non italiano. Storia e geografia: come a dire, ti costringo a studiare discipline che chiedono solo un minimo di applicazione, non certo capacità intellettive particolari. Tu sei intelligente, ed io lo so. Ti voglio punire solo per la tua infingardaggine.
Daniela, in realtà, l’estate se l’era goduta con entusiasmo ed allegria, nonostante la famiglia, a sottolineare il giudizio negativo della scuola e per farle saggiare la durezza di un impegno lavorativo, le avesse imposto un’occupazione presso la farmacia del paese. Lo studio occupava pochissimo tempo delle sue giornate di irrequieta adolescente, mentre per il mare, gli amici, la discoteca l’impegno era ai massimi livelli.
La famiglia, sì, le andava un po’ stretta, ma non si poteva lamentare. Altre sue compagne dovevano fare i conti con padri padroni, violenti e sopraffattori. Matilde, la sua amica del cuore, subiva violenze non solo dal padre, ma anche da suo fratello maggiore. Una volta, lo ricordava bene, l’avevano dovuta ricoverare in ospedale per una fortissima emorragia: gli scarponi di campagna del fratello si erano scagliati sul suo corpo minuto e l’avevano ridotta ad un ammasso di lividi. E tutto solo per un fidanzatino non gradito ai maschi di casa.
Per questo, Daniela non si lagnava: dai suoi genitori solo rimbrotti per i rientri serali sempre oltre l’orario consentito, solo severe sgridate per i mancati risultati a scuola, ma nulla di più. Non era poi tanto male.
Così, tra il mare, le serate in balera, il lavoro in farmacia e qualche distratta ora di studio, l’estate se ne era andata. Gli esami l’aspettavano, non aveva studiato molto. Daniela lo sapeva, gli insegnanti lo intuivano. Emma l’aveva capito in maniera inequivocabile quando, durante la seduta d’esami, le aveva chiesto di parlare delle guerre puniche, un argomento facile facile. Qualche balbettio, qualche racconto smozzicato e, poi, il colpo da teatro. Cartagine, la storica nemica di Roma, la patria della Didone virgiliana, per Daniela era diventata un’isola.
Emma ne aveva sentite tante, che Saffo fosse un uomo, che l’impero romano fosse caduto dopo la battaglia di Azio o peggio ancora dopo la scoperta dell’America, ma questa era proprio grossa. Cartagine, un’isola.
Eppure, nonostante la gravità dell’affermazione e delle circostanze, Emma trattenne a stento un sorriso. Quella ragazzina le metteva allegria, le era simpatica. La sua voglia di vita era contagiosa. La promozione riuscì a strapparla, una grazia ricevuta.
L’anno dopo Emma, assegnata al triennio superiore, non fu più l’insegnante di lettere di Daniela. Si incontravano nei corridoi, al cambio dell’ora. Un saluto, un sorriso, nulla di più.
Arrivò dicembre, i giorni rotolarono in un baleno verso le festività natalizie. L’ultimo giorno di scuola profumava di dolci e di quella gioia che precede la festa, fatta di attese e aspettative. L’atmosfera era rilassata, all’attività didattica si dava poco spazio, tutti indugiavano piacevolmente in chiacchiere. Emma aveva poco tempo, il treno l’aspettava. Frastornata tra un augurio e l’altro, ancora masticando qualche ghiottoneria natalizia, si avviò per le scale cercando di guadagnare l’uscita, rapidamente.
Fu lì che, alle sue spalle, sentì una voce: “Professore’, tanti auguri e buon Natale. Quest’anno ho messo la testa a posto, me so’ fatta pure i ricci.”
Daniela era lì, accanto alla triste e silenziosa Matilde. I suoi capelli erano diventati ricci, sbarazzini, nel tentativo inconscio, forse, di trasferire ogni irrequietezza nella capigliatura. I capelli sì, erano cambiati, ma il suo sorriso no. Quello era rimasto identico, sfrontato e provocatorio. Emma era convinta che Daniela non nutrisse nei suoi confronti una grande simpatia; l’aveva punita severamente, non condivideva il suo comportamento scanzonato, come poteva amarla? Ma i ragazzi sono come gli animali, sentono a fiuto chi gli vuole bene, davvero.
E così, inaspettatamente, Daniela abbracciò Emma, confessandogli in un sorriso che aveva fatto bene a rimandarla a settembre, che aveva avuto proprio ragione. Lei non aveva mai voluto studiare. Ma ora aveva capito la lezione, e aveva messo la testa a posto, non si sarebbe più fatta bocciare. E aveva concluso il suo augurio per il Natale con un “Professore’, ti voglio bene.” Annegato in un sorriso traboccante di vita. Per Emma il più bel regalo di Natale.
Ma con quel sorriso Daniela se ne volò via, tre giorni dopo.
Una balera di un pomeriggio di festa, il solito ritardo sull’orario di rientro imposto dai genitori, quella maledetta lastra di ghiaccio dietro la curva, e il suo volto ancora di bambina, i suoi ricci bruni si sciolsero nel buio straziante della morte.
Ma Daniela sarebbe rimasta per sempre lì, su quelle scale. Sorridente, con la testa finalmente a posto e i ricci belli.
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