Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Ormai l'unica cosa seria del Nobel è la cerimonia
Se qualcuno nutrisse ancora una qualche minima fiducia nei criteri di assegnazione del Nobel per la letteratura, e una qualche stima nel giudizio tecnico dei giurati dell'Accademia di Svezia ora potrà liberarsi dell'ingombrante e inutile bagaglio, gli basterà leggere i giudizi con cui quei signori, nel 1961, assegnarono, anzi NON assegnarono il prestigioso riconoscimento.
Trascorsi i 50 anni di segretazione dei verbali delle riunioni dei giurati –period stabilito da una strana norma del premio svedese che evidentemente fu introdotta per lasciare una discrezionalità assoluta a chi aveva il potere di decidere- un giornalista, Andreas Ekstrom, ha consultato e pubblicato le carte conservate nella biblioteca Nobel di Stoccolma.
Nel 1961 i nomi in lizza erano di grande spessore, ma di nazionalità sbagliata e di orientamento politico non corretto.
Così scrittori rispondenti ai nomi di Graham Greene, Edward Morgan Forster, Alberto Moravia, Karen Blixen, Robert Frost, e Lawrence Durrell vennero scartati a favore dello scrittore iugoslavo Ivo Andric che, pur avendo scritto opere dignitosissime, non era la stella più brillante del firmamento letterario in discussione quell'anno. In compenso però Andric apparteneva ad un paese comunista ed era stato presidente degli scrittori iugoslavi per la cooperazione con l'Unione Sovietica.
Come spesso accade il Nobel per la letteratura fu consegnato ad uno scrittore praticamente ignoto al grande pubblico, ma anche a quello colto ma non specializzato. E come spesso accade si parlò di Andric per qualche mese, le sue opere si vendettero, e forse si lessero, sull'onda della curiosità della recente assegnazione del Nobel, poi nessuno ne ha più sentito parlare.
Vi invito a chiedere a qualche "lettore forte", ma anche a tanti addetti ai lavori se si ricordano di Andric, al massimo contando su buone qualità della memoria vi diranno i due titoli che lo hanno reso celebre e l'assegnazione del Nobel.
Ma lasciamo perdere Andric, quel che sconcerta nei verbali di Stoccolma sono i giudizi che esclusero scrittori come Tolkien, Forster, Greene, Moravia, Frost o Durrell.
Il povero Frost fu eliminato perché troppo vecchio, aveva 86 anni e dunque l' Accademia temette non arrivasse vivo a ritirare il premio! Prima colossale idiozia, quello che dovrebbe essere il maggiore riconoscimento mondiale per la letteratura non viene assegnato a chi lo meriterebbe se questi è troppo vecchio?
Moravia su eliminato perché considerato noioso e ripetitivo e in questo caso potremmo anche convenire almeno in parte e per le opere successive al ‘60.
Forster, autore di Camera con vista e Casa Howard fu definito l'ombra di se stesso.
Durrell, autore di The Alexandria quartet, fu sospettato di "cattivo gusto", mentre Greene, autore del Terzo uomo, venne accusato di monomaniacalità erotica e si classificò al secondo posto davanti a Karen Blixen.
Ma il giudizio più assurdo e incredibile fu quello riservato a Tolkien da un idiota (in senso etimologico) della cui esistenza ci si è fortunatamente dimenticati e del quale non vale neppure la pena ricordare il nome. L'autore del Signore degli anelli, presentato all'Accademia svedese da Lewis (autore delle Cronache di Narnia) fu sprezzantemente gratificato da un giudizio a dir poco incredibile sulla scrittura: "non era affatto di alta qualità" e sullo stile: " non era in alcun modo all'altezza della narrazione della storia".
Tolkien può ovviamente non piacere, può non piacere l'epica fantastica dei suoi libri, si può non aver voglia o sensibilità per entrare nella Terra di mezzo di elfi, hobbit, draghi, gnomi, orchi, maghi; si può addirittura aborrire il genere. Ma il premio Nobel non dovrebbe essere una questione di gusti, e infatti il giurato che stese la motivazione per l'eliminazione di Tolkien si appellò allo stile e alla qualità della sua scrittura.
Ignorante quanti altri mai, lo stupido svedese non sapeva che lo scrittore inglese aveva addirittura dato vita ad un sistema linguistico con lemmi declinati secondo radici e desinenze che ne definivano la corrispondenza fra significante e significato.
Non sapeva che Tolkien aveva altresì posto, alla base della sua narrazione più famosa, un complesso sistema teogonico e cosmogonico tale da collocare gli eventi poi narrati in una storia complessa e antica tale da rappresentare l'episodio finale di un'epica eroica e morale secondo i crismi rigorosissimi di quello che lui definiva Universo secondario (quello della narrazione) regolato da leggi ferree di coerenza, coesione, e credibilità interne affinché si realizzasse quella sospensione dell'incredulità letteraria necessaria affinché un testo di fantasia risponda ai canoni minimi di accettabilità. Le leggi che Tolkien si era imposto riguardavano, non solo lo svolgersi della vicenda o i rapporti fra i personaggi, ma anche tutto l'apparato linguistico, ambientale, antropologico.
In questo straordinario sforzo creativo, unico nel suo genere, la tensione della scrittura non viene mai meno, sempre sorvegliatissima senza essere spocchiosa, sciolta ma mai sciatta, semplice per il faticoso lavorio di una ricerca inesausta della risemantizzazione delle parole consumate dall'uso.
Non è un caso che nel saggio Sulla fiaba del 1948 Tolkien parlasse della “magia delle parole” che consiste nella capacità dei sostantivi, e soprattutto di quelli elementari, primari direi, di racchiudere una molteplice quantità di significati profondi e simbolici che contengono ciascuno un racconto arcaico appartenente al nostro immaginario fantastico e spirituale.
Acqua, pane, vino, ferro, pietra, legno, fuoco sono alcuni dei sostantivi presenti in ogni fiaba con funzione polisemica, ma soprattutto con il compito di riportare il lettore alle sue esperienze primarie. L'acqua, per esempio, è quella del fiume che si gonfia per proteggere la fuga di Frodo dai cavalieri neri vicino a Rivendell, è l'acqua purificatrice della tradizione biblica, del battesimo, della lavanda delle mani, è la forza travolgente del Mar rosso che si apre di fronte ai giusti e si chiude sui malvagi, dall'acqua del mare nasce la dea della bellezza nella tradizione greca, e l'acqua benedetta accoglie un nuovo nato e saluta un defunto. Si potrebbe continuare così a lungo esplorando i territori dell'intensità simbolica che sta dentro ogni parola.
Poi c' è la “magia degli aggettivi”, spiegava ancora Tolkien, quella grazie alla quale un prato, per esempio si trasforma, come sotto l'incantesimo di una bacchetta magica, da verde, a secco, a giallo, a brullo a rigoglioso, umido, fresco o duro e spelacchiato. La magia delle parole che ci dimentichiamo di star compiendo ogni volta si intraprenda a parlare a raccontare o scrivere.
Ecco questo era Tolkien, questa la sua prosa “non di alta qualità” e non “altezza della narrazione della storia”!
Per finire un esempio, citato a memoria quindi passibile di imperfezioni: quando lo scrittore deve definire come si sentiva il vecchio Bilbo consumato, ma non vinto né addomesticato dalla forza diabolica dell'anello, Tolkien scrive più o meno che Bilbo si sentiva come “un pezzo di burro spalmato sopra una fetta di pane troppo grande”
Abbiamo letto solo i giudizi di 50 anni fa, non oso pensare a quelli successivi sia per premiare che per rifiutare, visto come sono andate le cose negli ultimi anni aboliamo il Nobel, almeno quello per la Letteratura non è più credibile. Sugli altri lascio gli specialisti a esprimersi.
Inserito da NewBalance547 il 15/11/2014 11:08:25
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