Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
a nuova frontiera del “governo del mondo” ? Il potere ai sindaci – parola di Benjamin Barber, docente alla City University di New York ed autore di “If Mayors Ruled the World”(“Se i sindaci governassero il mondo”), di prossima traduzione in italiano. Secondo Barber, intervistato da “La Stampa”, “l’Italia è un ottimo esperimento per le mie teorie, un laboratorio perfetto”. Difficile non dare ragione al professore, accreditato come teorico del progetto renziano in tema di Senato delle autonomie, quando afferma che il nostro Paese è “nella condizione peggiore perché ci sono troppe autorità e ciascuna senza potere e autonomia sufficienti”. In effetti tra Comuni, Province e Regioni i confini delle responsabilità sono labili e confusi. Meno credibile appare l’idea di dare ai sindaci un forte potere di rappresentanza, al punto da farne una sorta di forza politica trasversale, in grado di “incarnare” direttamente le istanze dei cittadini.
Non sappiamo quanto Barber conosca de visu la nostra realtà nazionale, che di “localismo” rischia di morire e non da oggi. Nell’ esperienza recente (pensiamo ai tanti comitati del “no”, che segnano – ad esempio - il percorso delle grandi opere infrastrutturali) il “localismo” , lungi dal porsi come un fattore di cambiamento, viene a depotenziare gli interessi generali, rendendoli residuali, e dunque incapaci di competere seriamente sul piano della crescita del sistema-Paese.
Con idee del genere ad uscirne sconfitta è l’idea stessa di Stato, uno Stato che, nella logica contemporanea dei grandi numeri e dei grandi aggregati (territoriali, produttivi, urbani) deve essere deputato a “fare ordine”, a selezionare i micro particolarismi, ad individuare priorità e direttrici di sviluppo.
Ciò - sia chiaro – non significa sminuire il valore dell’identità territoriale, a cui gli italiani sono storicamente e culturalmente legati. Non coniugare però queste identità con un più ampio e complesso interesse nazionale, significa mettere a repentaglio la tenuta stessa delle comunità che si dice di volere tutelare e rappresentare. Significa favorire le microconflittualità, chiudendosi, ognuno, nel proprio “orticello”.
Le “radici” di una grande realtà nazionale, qual è l’Italia, non sono quelle delle tante, pur gloriose comunità locali, per le quali è certamente doveroso un serio riordino amministrativo, quanto soprattutto quelle che ci vengono dalla tradizione romana ed europea, dalla consapevolezza di essere partecipi di un comune, più grande destino.
Scriveva, con lucida sintesi, più di settant’anni fa, Ezra Pound: “Il localismo ? Va bene quando localismo non significa conservazione della vanità locale, della stupidità locale, della mano morta locale, della superstizione locale”.
Di tutto, possiamo ben dire oggi, l’ Italia ha bisogno, fuori che di un localismo che significhi e magari coltivi conservazione, vanità, stupidità, mano morta, superstizione. Un localismo di questa fatta, seppure camuffato da riformismo istituzionale, farebbe solo danni.
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