Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
li avvenimenti politici di questi giorni nella nostra Italia forniscono alcune conferme sulle attuali condizioni della politica, dell’assetto istituzionale, del comune sentire. Intanto, è evidente che buona parte della sovranità risiede ancora nei partiti e, in particolare nel maggiore di essi, il Partito Democratico: la dialettica, il gioco delle correnti, la detenzione di alcune importanti leve di potere, sia pure con gli aggiornamenti del caso – vedi adozione delle “primarie” – hanno portato Matteo Renzi a Palazzo Chigi e non sono poi troppo diversi da quelli in uso nella Prima Repubblica e che già costituivano una palese violazione dello spirito della Costituzione, per la quale la sovranità spetta al popolo, che la esercita attraverso le rappresentanze parlamentari, e i partiti non sono che associazioni private da regolamentare con apposite leggi (e non c'è da stupirsi che l'articolo 39 non abbia mai avuto attuazione).
Quelli che avevano sperato in un cambiamento radicale – o quelli che l’avevano paventato – sull’onda dell’antipolitica marca “Cinque stelle” e della democrazia diretta da praticare sul web, guardano ora più sconsolati che speranzosi all’auto-isolamento dei seguaci di Grillo e Casaleggio.
La destra politica, nei suoi dispersi e ininfluenti brandelli, si contende pezzi di un’eredità che sembra interessare più per i suoi risvolti economico-patrimoniali che per i contenuti ideali; l’opposizione anti-sinistra, comunque maggioritaria fra la gente (anche se avvilita nell’astensione), è sempre più affidata alle falangi berlusconiane, guidate da un Capo che, pur vitale e astuto, è stato deprivato di ogni agibilità nelle sedi istituzionali ed è ancora sotto la spada minacciosa della magistratura, mentre l’età avanza inesorabile.
Sul fallimento di ogni tentativo “centrista”, è inutile soffermarsi: perfino i promotori, quali Monti e Casini, sia pure in diverso modo, ne hanno dovuto prendere atto; senza contare che poi, svanito fin l’ultimo pretesto ideologico, la cosiddetta vocazione centrista superstite legittima sospetti circa la malcelata ambizione di voler lucrare semplicemente rendite di posizione, da parte di frazioni (o di singoli!), pronti ad accontentarsi di fungere da ago della bilancia (sotto questo profilo, ben vengano marchingegni elettorali finalizzati a penalizzare i piccoli, specie se portatori di puri e semplici veti interessati).
Le modalità di investitura – di autoinvestitura? – di Matteo Renzi hanno fatto stracciare le vesti a molte vestali della democrazia, specie nella nostra versione parlamentare; ma tanto il disarcionamento di Enrico Letta quanto l’insediamento a Palazzo Chigi dello stesso Renzi rientrano non solo in una consuetudine italiana che risale alle manovre di palazzo, alle congiure, ai pugnali e ai veleni dei secoli passati, ma anche alla peculiare inclinazione della nostra politica a privilegiare il potere personale – e dunque, le lotte di potere personale – a discapito dell’interesse comune e, comunque, del gioco democratico, come e apparso chiaro in questi ultimi lustri, con l'abitudine dei leader di intestarsi le liste e di mostrare in tv facce e ambizioni, spesso perdendo il contatto con il territorio. In fondo, il “porcellum” non ha fatto che conferire una sanzione legislativa al distacco fra rappresentanti e rappresentati.
Analogamente, suscitano ora sorrisi di compatimento ora infastidite reazioni le ricorrenti tirate in difesa della “Costituzione più bella del mondo”; metabolizzata la mancata regolamentazione di partiti e sindacati, si è continuato per anni e anni a difendere le iniziative politiche e istituzionali più arrischiate – da ultimo, quelle legate all’attuale Presidente della Repubblica, in occasione della defenestrazione berlusconiana e dell’assunzione del prof. Monti nei cieli della politica – sottolineando la correttezza dei comportamenti, nel nome della distinzione fra “costituzione formale” e “costituzione materiale”, disquisendo fra spirito e lettera della stessa Costituzione, conferendole un elasticità al limite della rottura e del travalicamento di funzioni (il caso documentato da Alan Friedman è solo il più' clamoroso). Occorre poi ripetere che l'ultimo presidente del Consiglio legittimato dal voto popolare è stato Silvio Berlusconi nel 2008? Che le principali misure adottate dagli ultimi governi hanno trovato la loro fonte presso soggetti internazionali quali Bce, FMI e UE? Che la Consulta, con la sua recente sentenza, ha delegittimato il Parlamento (e, conseguentemente, anche il Capo dello Stato da quel Parlamento eletto?); che monta un'insofferenza verso l'Europa dei burocrati e dei banchieri e, in Italia, verso la politica?
In una simile cornice, la sfida che Matteo Renzi si è andato a cercare, pugnalando un compagno di partito, sembra essere figlia del coraggio, del cinismo, dell'ambizione e - ci auguriamo, da italiani - della sincera preoccupazione per le sorti, non solo economiche, della Patria. Tutti sanno le cose che non vanno e che sono da cambiare, in questo paese, ma finora nessuno è riuscito a muovere passi decisivi nella direzione giusta.
Renzi ha dalla sua l'età e la sfrontatezza; quanto al coraggio, dopo quello dimostrato coinvolgendo il condannato Berlusconi nel percorso per le riforme, sembra essersi arrestato di fronte all'abolizione del Senato, che vorrebbe trasformare in una sorta di conferenza permanente Stato-Regioni, quando l'esigenza primaria è quella di accentrare e semplificare e velocizzare le decisioni, sottraendole, ad esempio, ai vari cacicchi locali. Se Renzi dev'essere, allora, speriamo che, in mancanza di un'autentica legittimazione popolare, continui ad avere almeno il favore popolare dei sondaggi, basato sulle sue effettive e dimostrate capacità di cominciare a cambiare sul serio e in meglio la nostra Italia.
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