Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Nel 2008 il candidato Barack Obama rappresenta due cose: un outsider della politica e un futuro presidente multirazziale, con un padre keniota e un secondo nome musulmano.
Gli Stati Uniti, si sa, sono conservatori, e un candidato con queste caratteristiche difficilmente verrebbe premiato dall’elettorato. Perciò, una volta in lizza, diventa necessario per Obama affermare un forte ed evidente legame con la storia americana.
Il candidato multirazziale si presenta quindi come l’erede delle tradizioni politiche e oratorie di Abraham Lincoln e Martin Luther King, rispettivamente l’eroe retore fondatore d’America e il leader mondiale della lotta di liberazione dell’America di colore.
La retorica del Presidente degli Stati Uniti d’America assume subito una piega magistrale. Nel discorso alla Siegessaule a Berlino nel luglio del 2008 esprime uno stile elevato: «Mentre parliamo, le automobili a Boston e le fabbriche a Pechino stanno sciogliendo le calotte polari nell'Artico, causando l'erosione delle coste nell'Atlantico e portando siccità alle fattorie dal Kansas al Kenya».
Notiamo antitutto le allitterazioni: “Artico” e “Atlantico”; “Kansas” e “Kenya”. Superbo il movimento della frase nello spazio: dall'intimo qui e ora del «mentre parliamo», in una spirale verso l'esterno attraverso la scala industriale delle automobili e delle città, fino agli affetti continentali e globali.
L’anafora, figura retorica della ripetizione, domina il discorso di Obama alla riunione dei dirigenti di partito in Iowa del 3 gennaio 2008: «Sarò il presidente che finalmente renderà la sanità accessibile... sarò il presidente che metterà fine alle agevolazioni fiscali ingiuste... sarò il presidente che sfrutterà l'inventiva... sarò il presidente che metterà fine alla guerra in Iraq...»
E ancora: «Questo è il momento in cui... questo è il momento in cui... questo è il momento in cui...» portando il discorso verso la costruzione del suo climax: «La speranza è ciò che ho visto... la speranza è ciò che ho sentito ...la speranza è ciò che condusse un manipolo di coloni a ribellarsi contro un impero».
In corrispondenza all'anafora, Obama sfrutta la sua risonanza storica di pari passo con la sua efficacia retorica.
L’anafora è una figura retorica famigliare agli americani consapevoli della storia del loro paese, soprattutto perché rievocano a ogni pie’ sospinto la “Dichiarazione d'Indipendenza”, nella quale l'atto d'accusa contro re Giorgio si concretizza proprio a colpi di anafora. «Egli ha rifiutato... egli ha proibito... egli ha rifiutato... egli ha chiamato a raccolta... egli ha dissolto... egli ha rifiutato... »[1].
Notevole risulta la perorazione del discorso di St. Paul, Minnesota, con il quale ringraziò per la candidatura alle presidenziali, nell’estate del 2008:
«Il viaggio sarà difficile. La strada sarà lunga. Affronto questa sfida, affronto questa sfida con profonda umiltà e consapevolezza dei miei limiti, ma l'affronto anche con una fede senza limiti nella capacità del popolo americano. Perché se vorremo lavorare per questo, e lottare per questo, e crederci, sono assolutamente certo che, a distanza di generazioni da questo momento, saremo in grado di guardarci alle spalle e dire ai nostri figli che questo è stato il momento in cui abbiamo cominciato a dare assistenza ai malati e un buon lavoro ai disoccupati. [...] Questo è stato il momento in cui il ritirarsi degli oceani ha cominciato a rallentare e il nostro pianeta ha cominciato a guarire. [...] Questo è stato il momento nel quale abbiamo concluso una guerra, messo al sicuro la nostra nazione e ripristinato la nostra immagine come l'ultima, migliore speranza sulla terra. Questo è stato il momento, questo è stato il tempo in cui ci siamo riuniti per rifare questa grande nazione così che possa sempre riflettere la parte migliore di noi e i nostri ideali più alti».
«Questo è stato il momento», locuzione ripetuta più volte, si riferisce a una decisione come se fosse stata già presa. D’altronde, ciò si spiega in uno schema religioso. Secondo la provvidenza divina, la decisione è già stata presa, e ogni momento della storia ha condotto a questo punto.
Questo tipo di linguaggio, per ragioni storiche, funziona meglio in America che in Gran Bretagna. Tony Blair, per esempio, fu preso in giro in maniera spietata per la sua virata verso il registro messianico. Qualcuno forse lo ricorderà, durante i colloqui di pace in Irlanda del Nord, annunciare maldestramente: «Un giorno come oggi non è un giorno per facili slogan, davvero. Oppure sento la mano della storia sulle nostre spalle».
Barack Obama mantiene il legame col piano umano ancorando l'ultima parte del discorso alla vita della centoseienne Ann Nixon Cooper: «Questa elezione ha visto molte prime volte e molte storie che saranno raccontate per generazioni. Ma ce n'è una che ho in testa questa sera ed è quella di una donna che ha espresso il suo voto ad Atlanta. Per molti aspetti somiglia a milioni di altri che hanno fatto la fila perché la propria voce fosse sentita in queste elezioni, tranne che per un aspetto: Ann Nixon Cooper ha centosei anni. E’ nata solo una generazione più tardi dell'abolizione della schiavitù; un'epoca in cui non c'erano automobili in strada o aeroplani in cielo; quando qualcuno come lei non poteva votare per due ragioni: perché era una donna e per il colore della sua pelle. E questa sera penso a tutto quello che ha visto nel corso del suo secolo in America: l'angoscia e la speranza; la lotta e il progresso; le volte in cui ci è stato detto che non potevamo, e le persone che perseverarono con quella fede americana Yes we can. In un'epoca nella quale le voci delle donne erano zittite e le loro speranze venivano spente, ha vissuto fino a vederle alzarsi e prendere la parola e raggiungere il diritto di voto. Yes we can. Quando c'era disperazione nelle Grandi Pianure e tutto il paese era attraversato dalla depressione, vide una nazione vincere la paura stessa con il New Deal, nuovi lavori, un nuovo senso dello scopo comune, Yes we can. Quando le bombe caddero sul nostro porto e la tirannide minacciò il mondo, era lì a testimoniare che una generazione si elevava alla grandezza e una democrazia era salva. Yes we can. Era lì per gli autobus a Montgomery, per gli idranti a Birmingham, per il ponte di Selma e per un predicatore di Atlanta che diceva alla gente “Noi vinceremo”. Yes we can. Un uomo è atterrato sulla luna, un muro è caduto a Berlino, un mondo è stato connesso grazie alla nostra scienza e alla nostra inventiva. E quest'anno, in queste elezioni, lei ha toccato con un dito uno schermo, e ha espresso il suo voto, perché dopo centosei anni in America, attraverso i periodi migliori e le ore più buie, sa come l'America può cambiare. Yes we can»[2].
Seguendo la vita di Ann Nixon Cooper, Obama traccia una linea temporale attraverso tutto il ventesimo secolo fino al presente, dal Sud segregato alla luna.
Lo slogan che domina le elezioni del 2008, e che lo fa vincere, «Yes we can», risulta efficace perché formato da tre sillabe consecutive accentate.
Nella trascrizione ufficiale del suo discorso nelle primarie nel New Hampshire, per esempio, queste parole sono riportate fra punti: «Yes. We. Can».
Di nuovo, è l’anafora la figura retorica dominante ha un effetto ancora più potente l'aver messo mano all'epistrofe, cioè l’anafora rovesciata, trasformando uno slogan in un leitmotiv.
Il climax del discorso di Chicago ha posto l’accento sulle conclusioni: «In un'epoca nella quale le voci delle donne erano zittite... Yes we can. Quando ci fu disperazione... Yes we can. Quando le bombe caddero... Yes we can». Come nota simpaticamente Sam Leith, “Qui il mezzo è davvero il fine, o meglio la fine di ogni frase”[3].
Insomma, è possibile vincere le presidenziali statunitensi a colpi di retorica? Yes w[1] US National Archives http://www.archives.gov/exhibits/charters/declaration_transcript.html. Corsivo mio.
[2]http://elections.nytimes.com/2008/results/president/speeches/obama-victory-speech.html. Corsivo mio.
[3]S. Leith, Fare colpo con le parole. Trattato spregiudicato di retorica da Aristotele a Obama, Ponte alle Grazie (Adriano Salani Editore), Milano, 2013, p. 251. Corsivo mio.
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