Curiosità

Con S.Antonio Abate Comincia il Carnevale

Un giro per l'Italia che festeggia il Santo barbuto secondo antiche consuetudini e vecchie leggende

di Marina Cepeda Fuentes

Con S.Antonio Abate Comincia il Carnevale

Il falò che alcune tradizioni vogliono si faccia nella ricorrenza di S.Antonio Abate,

Un vecchio proverbio afferma che il freddo, quello che fa battere i denti, dovrebbe arrivare intorno a metà gennaio e durare poco: “Sant’Antonio, la gran freddura; San Lorenzo la gran calura; l’una e l’altra poco dura”. Si riferisce naturalmente a Sant’Antonio Abate la cui festa cade il 17 gennaio e a  San Lorenzo del 10 agosto.
D’altronde un altro proverbio ricorda che: “Il barbato, il frecciato, il mitrato e il freddo se n’è andato”. Il barbato è Sant’Antonio Abate con la lunga barba bianca;  il frecciato è  san Sebastiano, festeggiato il 20 di questo mese, e il mitrato è san Biagio che è raffigurato con la mitra da vescovo, e si festeggia il 3 febbraio. Ma un altro proverbio sostiene che “A San Vincenzo” - che cade il  28 gennaio – “l’inverno mette i denti”.  
Insomma, quel che è certo, come affermano i contadini, è che “Gennaio è avaro”, perché questo mese è  caratterizzato dalla “stasi vegetale”: una sorta di pausa durante la quale  la natura offre poco o niente e perciò il lavoro in campagna diminuisce; inoltre  il sole spesso è velato e il freddo fa rintanare in casa persino gli animali domestici. Per tutto ciò, quando non c’era la televisione che ottunde l’immaginazione, e per porre rimedio a quel lungo periodo d’immobilità, si raccontavano fiabe e leggende davanti al focolare, o nelle calde stalle, e si faceva  festa, ballando, cantando, scherzando, bevendo il vino appena imbottigliato e consumando  le scorte invernali di grasso, specialmente del maiale macellato a novembre per San Martino oppure a dicembre per Santa Lucia: era arrivato il Carnevale, quando   appunto, occorreva dar fine ai cibi che poi sarebbero stati vietati durante la Quaresima, come i salumi,  “risorti” però con tutti gli onori la mattina di Pasqua.
Il lungo periodo carnascialesco è addirittura iniziato in alcune località italiane  il giorno dell’Epifania, soprattutto in quei luoghi dove  è stata bruciata in pubblico la vecchia Befana, simbolo dell’Anno Vecchio, della Madre Natura che muore per rinascere a primavera. Ma quasi dappertutto, e anche in molti Paesi  dell’Europa, il Carnevale comincia ufficialmente il 17 gennaio, proprio con la festività del “Santo del porcellino”. E durerà  fino alla mezzanotte del Martedì Grasso, che quest’anno cade  il 21 febbraio:  il giorno dopo,  il Mercoledì delle Ceneri,  comincerà la penitenziale Quaresima con i suoi “magri” quaranta giorni di astinenze da contrapporre a quelli carnascialeschi, quando una volta era d’obbligo mangiare “di grasso”.
Ancora oggi è così in alcune regioni, come nel Molise, dove il piatto tipico del Carnevale e chiamato “Trachiulella e panuntella”, e cioè saporite  cotolette di maiale su  pane casareccio tostato e unto di peperoncino o “diavolillo”. Una filastrocca popolare afferma infatti: “Carnevale, muse unte/ z’ha magnate le panunte...”, ossia “a Carnevale tiene il muso unto chi ha mangiato il panunto”.
Ma indipendentemente dal Carnevale l’usanza di consumare  prodotti suini durante la festa di Sant’Antonio Abate è molto diffusa tuttora in tutt’’Italia. Per esempio a Velletri, dopo la caratteristica  “Corsa  dell’anello” con i cavalli, si degustano grosse fette di pane con “sarciccie” calde.  E negli Abruzzi, la notte della vigilia, ragazzi e adulti vanno cantando per le case i cosiddetti “canti di sant’Antonio” ricevendo in cambio salsicce e uova per il pranzo del giorno dopo.   Mentre nei borghi della vecchia Napoli, dove la sera del 17 gennaio vengono accesi innumerevoli falò detti “cippi”, alcune bancarelle vendono, caldo, caldo, il “soffritto” o “zuppa forte di sant’Antonio”, un insieme di corata di maiale, fegato, cuore e milza, cotto nel pomodoro e consumato con i maccheroni o su fette di pane abbrustolito. E per l’occasione vi sono persino numeri propiziatori  della buona fortuna da giocare al lotto, naturalmente sulla ruota di Napoli: il 4, il fuoco; l’8, il porco; il 17, sant’Antonio.
Il maiale, gustoso protagonista dei festeggiamenti del Santo eremita egiziano,  lo era anche nell’antica Roma a gennaio, quando si celebravano feste e riti agricoli durante i quali si sacrificava una scrofa alla dea Cerere come augurio di fertilità e d’abbondanza nei raccolti primaverili. D’altronde la carne di maiale, insieme a quelle del capretto e dell’agnello, è stata la prediletta dell’uomo fin dalla preistoria: i primi allevamenti risalgono addirittura  al 6.500 a.C.  Nei Paesi mediterranei e nel Vicino Oriente era un animale da pascolo, che viveva prevalentemente nei boschi allo stato libero; più tardi si inserì nel  tessuto urbano vivendo di avanzi con i conseguenti pericoli sanitari per gli abitanti: tenia, salmonellosi, trichionosi; e perciò i Romani idearono “allevamenti razionali” molti simili alle moderne  porcilaie.
Ma torniamo al nostro “purcelluce antoniano” e alle sue carni che, una volta elaborate, diventano le squisite specialità di cui ogni regione italiana è fiera: cotolette, luganiche, soprassate, pancetta, prosciutti, mortadella, zampone, cotecchini, salami, salsicce o culatelli come quelli che d’Annunzio definiva “salata e rossa compattezza porcina”. Ebbene, a volte veniva ucciso proprio per la festa di Sant’Antonio Abate per dare così  inizio alla gioia sfrenata e insieme tragica del Carnevale: un  arcaico rito  propiziatorio di fecondità e abbondanza che nel Medioevo culminava nella morte del Re, come accade tuttora in molte celebrazioni carnacialesche dell’Italia di cui si parlerà a suo tempo.
In ogni modo, sebbene un detto affermi “cappone a Natale e porco a Carnevale”, durante il periodo carnascialesco oltre al grasso maiale, si consumano tanti altri prodotti tipici, anche perché, una volta, ciò che contava era bruciare in poco tempo gran parte delle scorte invernali e dimostrare ai vicini che si era in grado di farlo: “A Carnevale si conosce chi ha la gallina grassa”, dice infatti un proverbio. I più poveri invece si accontentavano d’ammazzare il gatto facendolo passare per squisito coniglio: “Per Berlingaccio chi non ha ciccia ammazza il gattaccio”, dicono in Toscana, dove il Giovedì Grasso, l’ultimo di Carnevale, viene chiamato “Berlingaccio”, sinonimo anche di persone grassa e allegra. Un altro proverbio però ci rammenta che “dopo il porco di Carnevale arriva l’anguilla di Quaresima” per sottolineare che dopo  gli eccessi delle feste, rappresentati anche dal “mangiar di grasso”, giunge la penitenza quaresimale con il suo grigio “mangiar di magro”.
In ogni modo non tutti i cibi carnascialeschi sono grassi: a Villavallelonga, una cittadina abruzzese in provincia dell’Aquila, c’è un’usanza singolare in onore di  sant’Antonio Abate quando  si distribuiscono a tutta la popolazione fave cotte e la  “panetta”, una sorta di focaccia agrodolce  di farina, uova, anice e sale. L’usanza è ispirata a una leggenda locale. 
Si narra che tanto tempo fa un proprietario terriero, non riuscendo a trovare braccianti, imprecava spesso: -“Finirà che farò lavorare la terra al diavolo”. Un giorno bussò alla sua porta  uno strano individuo, molto compito, offrendosi  di lavorare i campi insieme con dei compagni, soggiungendo che  come compenso volevano soltanto un buon pranzo ma  senza sale. Il proprietario, soddisfatto, se ne tornò a casa ordinando alla moglie di preparare un  pasto abbondante per i braccianti; ma si scordò di avvertirla di non usare il sale.
 Quando fu l’ora del pranzo la donna portò in  tavola del pane salato appena sfornato e una fumante pentola  piena di fave cotte, ma  quei braccianti dall’aspetto riservato, appena assaggiato il cibo  lo rifiutarono cortesemente con una smorfia di disgusto. Allora lei esclamò: -“Sant'Antonio benedetto, come  fate a mangiare senza sale? Non sarete per caso diavoli?”. A quelle parole l’intero gruppo sprofondò nel terreno spandendo  un acre odore di zolfo.  La donna, ringraziando sant’Antonio che, come è risaputo,  in  molte occasioni aveva vinto le tentazioni  del diavolo,  disse: -“Sant’Antonio mio ti ringrazio. D’ora in poi tutto il raccolto di grano e di fave lo darò  in tuo onore per la festa”.
E perciò, conclude la leggenda,  a Villavallelonga il 17 gennaio, per riconoscere l’eventuale  presenza dei diavoli, si distribuisce  la “panetta”, rigorosamente salata, insieme con le fave cotte, mentre  per le vie  sfilano le prime maschere del Carnevale: sono i diavolici  “mascar brut”, muniti di catene e corna,  con la faccia annerita e una cipolla in bocca. D’altronde in molte Feste in onore del buon santo barbuto appaiono i diavoli, come a Mamoiada, in Sardegna, dove  si accendono grandi falò ed escono in corteo per le vie i tipici e  diavoleschi “mamuthones” con tanti rumorosi campanacci!

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da arappe57 il 17/01/2019 08:19:00

    È sbagliata la data del martedì grasso. Quest' anno sarà il 5 marzo e non a febbraio

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