Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Una mostra imponente: circa centoquaranta dipinti raccontano fino al 5 febbraio a Roma, nella storica sede di palazzo Venezia, la cultura artistica che circolava nella città eterna fra il 1600 e il 1630, al tempo in cui Caravaggio divenne uno dei massimi pittori mai esistiti e la sua visione geniale continuò a rispecchiarsi nell’opera dei suoi seguaci.
L’esposizione romana, curata da Rossella Vodret e promossa dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Roma, è organizzata seguendo un criterio cronologico. Il visitatore è guidato dai primi anni del Seicento fino agli anni Venti – quando oramai gli stilemi caravaggeschi andavano gradualmente scolorendosi – passando per opere pubbliche e private dei più grandi pittori operanti a Roma in quel dorato trentennio dell’arte.
Il sipario si apre sul raffronto tra una delle più celebrate opere del lombardo Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, la Madonna di Loreto, e una pala proveniente dalla bottega del bolognese Annibale Caracci, di identico soggetto.
In quegli anni questi due giganti della pittura elaborarono i princìpi fondanti delle loro divergenti percezioni artistiche che, pur nascendo da una condivisa osservazione del mondo naturale, si svilupparono in maniera profondamente dissimile fino a costituire le linee guida di tutta l’arte secentesca successiva.
Carracci elaborò una pittura classicista, sviluppando il concetto di raffigurazione dell’“idea” intesa come summa di perfezione e selezione degli elementi migliori tratti dalla natura. Caravaggio dal canto suo proseguì fino alla morte precoce, nel 1610, la ricerca e la rappresentazione di quanto osservabile nel mondo reale, con una verità e una piena compartecipazione alle umane bassezze che ci coinvolge ancora oggi. Il primo inonda le proprie opere di un luce diffusa che lascia emergere, benevola, ogni parte del dipinto, l’altro invece è solito inserire una fonte di luce unica che illumina di taglio la scena con un effetto fortemente teatrale, definendo alcuni dettagli realistici mentre, giocando con le ombre scure, ne nasconde altri.
Va tuttavia fatto notare che l’accostamento proposto dalla mostra non è del tutto esemplificativo, se non per la comunanza di soggetto dei due quadri: la tela riferita ad Annibale è infatti un’opera di bottega e ciò appare evidente ad un’osservazione attenta che permette di identificare la sovrapposizione di più stili. Non si ritiene perciò coerente un parallelismo tra uno dei maggiori capolavori di Caravaggio e un’opera di altalenante fattura, condotta a più mani, che certamente non può rendere giustizia alla pittura eccelsa di Carracci.
Alla fine del primo decennio del Seicento, a distanza di un anno l’uno dall’altro morirono sia Annibale sia Caravaggio. Da allora le loro modalità pittoriche furono riprese e adattate dai vari seguaci: quelli del bolognese afferenti a una efficiente bottega, quelli del Merisi non organizzati in una scuola e appartenenti a differenti gruppi e culture artistiche.
Proseguendo il percorso della mostra si giunge nel salone interamente rivestito di pale d’altare provenienti dalle chiese di Roma e provincia. La favolosa teoria di enormi tele è di grandissimo effetto: sfila davanti allo spettatore il frutto delle commissioni pubbliche ricevute da Giovanni Baglione, Guido Reni, Giovanni Lanfranco, Pietro da Cortona e molti altri.
Seguono nella mostra gli artisti che già nel primo decennio maggiormente aderirono allo stile e alle modalità pittoriche di Caravaggio come Orazio Gentileschi, Orazio Borgianni, Carlo Saraceni, lo stesso Baglione, e che furono fra i primi artisti a riconoscerne il genio e ad esserne potentemente influenzati, pur se ognuno in modo differente.
Trovano poi spazio i dipinti degli appartenenti alla generazione successiva, attivi dal secondo decennio, coloro che non conobbero Caravaggio in vita ma ne fruirono l’indefinito slancio artistico. Fra loro ricordiamo il noto e misterioso Bartolomeo Manfredi, accusato di mettere in circolazione copie di quadri del maestro e di venderle come originali. Alcune fonti raccontano che costui fu addirittura ossessionato dalla personalità di Merisi: “non fu semplice imitatore, ma si trasformò nel Caravaggio”, scrive il biografo Giovan Pietro Bellori nel 1672. Manfredi promosse un particolare movimento artistico denominato appunto Manfrediana Methodus che, coinvolgendo giovani personalità, soprattutto francesi, divulgò ulteriormente lo stile e i soggetti del lombardo. Altri pittori di differenti scuole entrarono in quel periodo nell’orbita caravaggesca: la giovane e talentuosa Artemisia, figlia di Gentileschi e protagonista del famoso processo per stupro, che nella stupenda tela intitolata Susanna e i vecchioni adombra tragicamente la propria esperienza; sono anche presenti in mostra le opere superbe del napoletano Battistello Caracciolo, del viterbese Bartolomeo Cavarozzi, del genovese Bernardo Strozzi, del bolognese Leonello Spada, del veronese Alessandro Turchi e di molti altri che in tutta la penisola furono travolti dalle rivoluzionarie novità della pittura di Merisi.
Tra costoro anche moltissimi artisti stranieri parteciparono a quest’epopea culturale, come Gerrit van Honthorst, il più importante pittore fiammingo a Roma, Jusepe Ribera, spagnolo attivo a Napoli, il francese Simon Vouet che più tardi, al suo ritorno in patria, ritroverà invece una linea pittorica classicista.
All’inizio del terzo decennio, con la salita al soglio pontificio del bolognese Gregorio XV (1621-1623) la situazione cominciò a mutare: il papa favorì apertamente gli artisti suoi conterranei, promulgatori di una visione più tradizionale della pittura, e gradualmente con la morte di alcuni fra i principali esponenti della corrente caravaggesca (fra cui Borgianni nel 1616 e Manfredi nel 1622) gli orientamenti culturali e artistici si fissarono sulle tendenze classiciste e sulle innovative istanze barocche, a discapito del naturalismo merisiano.
Chiude la mostra la suggestiva pala dipinta dal caravaggesco francese Valentin de Boulogne per papa Urbano VIII Barberini (1623-1644) alla fine degli anni Venti con la rappresentazione allegorica dell’Italia, emblema del nascente linguaggio barocco che di lì a poco diventerà espressione massima della potenza della Chiesa cattolica romana sull’eresia luterana.
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