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Subalternità coloniale penosa

D'un vocabolario che nella sete ingurgita anche parole che gli vanno di traverso

La favella di Eliot e Pound e poi Donne e Browning e Douglas è semplicemente magnifica

di Piccolo da Chioggia

D'un vocabolario che nella sete ingurgita anche parole che gli vanno di traverso

Ezra Pound - Enrico Pea

Sulle parole strampalate che percuotono ormai a sangue il nostro latino non so più come descrivere il disorientamento, palese quando si deve scrivere in bello stile. Accettiamo senza discernimento vocaboli inglesi o meglio angloamericani a testimonianza d’una subalternità coloniale penosa. Un esempio sotto i nostri occhi e importante: per denominare le macchine elettroniche con le quali vediamo l’internet o scriviamo pagine e pagine di testi e lettere usiamo un termine che nella nostra lingua ha un suono insulso e facilmente si piega, almeno in Veneto, a goffe pronunce semidialettali. Questo quando Francesi e Germanici hanno saggiamente coniato le loro parole di denominazione: “ordinateur” e “Rechner”. I Parigini intravedendo della macchina l’aspetto di ordinatrice elettronica, i Berlinesi semplicemente ritraducendo nella loro lingua il nome inglese che sottolinea la facoltà computazionale dell’apparato. Non era possibile anche per noi fare una cosa simile? Dove sono i nostri scrittori di genio? Sono così in ansia di gioire anche della subalternità culturale, sorella gemella di quella coloniale già imposta dagli eventi storici?

Si badi bene di non trascinare nella questione argomenti retorici e italocentrici. Se non è il caso proprio di ripetere certe patetiche tortuose volture in italiano di parole dall’inglese o dal francese come fu fatto in era fascista con risultati a volte comici, pure non è da trascurare l’intenzione generosa di qualche futurista che si propose di dare una traduzione italiana a quei termini che indicando divertimenti e belle cose in voga nelle capitali europee, subissavano la povera fantasia di molti abituata alla quieta e modesta vita delle nostre provincie. Nacquero il “Quisibeve”, surrogato latino del bar o la “Polibibita”, incauto veicolo di trasgressione e trasmissione di ebbrezze, e surrogato dell’elegante cocktail. Intenzione generosa e gioiosa che oggi si può rivolgere con maggior profitto e sicurezza di successo se si abbiano della nostra lingua ben chiari i limiti e i miracoli. I limiti sono facilmente identificabili: non essendo noi al culmine della ricerca scientifica e tecnologica planetaria dobbiamo riconoscere modestamente le nostre difficoltà e accettare parole straniere. Ma ciò si faccia con senno, se ne consideri innanzitutto il suono e l’armonia colle altre parole cui si accompagneranno e se ne prevedano le possibili deformazioni di pronuncia dovute ai nostri accenti dialettali. La popolazione degli scrittori, pure di coloro che compilano testi specifici e tecnici dia sempre la massima attenzione allo stile: la lingua non è solo scritta dai poeti ma è scritta pure dagli ingegneri, dagli agronomi e dai biologi. E a tutti è dato l’ufficio di rendere bella la nostra letteratura. In tutti i campi. Accennavo dunque ai limiti del nostro latino e mi pare di averli individuati ad un dipresso nelle parole tecniche per le quali accettiamo vocaboli stranieri dal suono goffo senza nemmeno fare lo sforzo di vedere se non sia possibile effettuare un calco gradevole o dare una buona traduzione. Quanto ai miracoli per fortuna essi sono tutto il resto della nostra lingua che dispone di una varietà magnifica di parole e variazioni e sinonimi di esse, tali da rendere possibili testi di splendida ritmicità e armonia.

Non si usino queste modeste linee come argomento contro la lingua inglese. La favella di Eliot e Pound e poi Donne e Browning e Douglas è semplicemente magnifica. Ma c’è termine e termine: “king” ha suono bellissimo anche pronunciato con accento italiano, “bread” anche, “Lord” idem. Pronunciare quella parola che indica la nostra calcolatrice elettronica molto molto meno. Generalmente le parole inglesi a una o due sillabe suonano bene anche ritrasposte nel nostro accento. Quelle a tre sillabe o più si caricano di suoni strascicati.

Poscritto

Subalternità culturale davvero triste. Solo poco tempo addietro, dato che in questioni del genere il tempo si misura a secoli, Pound, imfiammato per l’Italia traduceva l’apuano Enrico Pea da lui reputato maestro di lingua e stile. Chi legge più ora il Wilhelm Meister di Pea che prende il titolo grazioso de “Il romanzo di Moscardino”? Addirittura dalla sua prigionia il bardo americano scriveva a Olga Rudge, la violinista, per aggiornarsi sulla traduzione in inglese del romanzo apuano proseguita dalla donna. Si trova nelle carte dello scrittore di Seravezza un appunto sulla visita che Pound effettuava in quel di Viareggio a Pea: anni trenta e argomento erano alcune parole del gergo dei marinari e cavatori apuani da volgere in inglese: ne rammento una: la nassa, una sorta di rete colla quale catturare i pesci. Il bellissimo appunto dell’autore lucchese è davvero un conciso capolavoro di stile e memoria scritta: si disegnano nella mente cose e gesti d’un tempo come se si fosse presenti. Si vede Pound che alla stazione salta il cancelletto per prender il treno già in moto coll’agilità del boy americano. Abituato forse come i cow boys a saltar in sella ai cavalli. Ma qui Pound non portava cinturone e pistole, solo la valigetta colla macchina da scrivere portatile. Nell’appunto: da una parte la quiete provinciale del buon Pea che nel suo romanzo di formazione non lascia in oblio nemmeno una buona ricetta per l’”acquacotta”, vivanda da ingurgitare nel brigantino a vela, dopo che le onde e la tempesta hanno squassato le fiancate e i marinai sono esausti per la fatica di governare la nave e non colare a picco. Dall’altra l’irrequieto bardo dalla barba rossa e striata, “in ragione dell’età”, di qualche filo d’argento, che dona al profilo un tratto simpaticamente diabolico… L’appunto fa parte d’un insieme di ricordi del Pea dal titolo adamantino di “Memorie e fughe”. In un racconto di questi, una brava camerierina della provincia lucchese dai capelli rossi pure lei, si difende dai soldati dei tre eserciti, siamo durante il passaggio della “linea gotica” il cui estremo occidentale era proprio la Versilia Apuana, che la vogliono sedurre a poco prezzo e li burla tutti. Bell’allegoria della nostra subalternità coloniale culturale. Il nostro vocabolario dovrebbe fare come la virtuosa camerierina. Sposare parole nuove perché volute e belle.

Poscritto secondo

Ho trovato per puro caso un vecchio taccuino di viaggio di Luigi Barzini: 1904, Vladivostok, all’estremo della Siberia. Che bello stile nel raccontare le cose viste! Fra queste le strambe isvosce che popolano Mosca e Pietroburgo e pure a Vladivostok scarrettano per le vie a monito della sovranità russa sui luoghi. Una conseguenza rotolante del “Nomos der Erde” che farebbe andare in brodo di succiole il professor Carl Schmitt. Il milanese le annota in qualche particolare per via d’una sorta di stanga che, scrive, sorregge il cavallino. Quando questo è stanco? Oltre non so rammentare, lo scritto era stringato…

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