Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Canaletto : Veduta di Venezia con il Canal Grande, presso Galleria degli Uffizi, Firenze
Mattino sulla collina berica. Lo sguardo svetta negli stretti ritagli che il vento causa fra nubi grigie e violacee verso il celeste sereno d’un dì primaverile. Le nubi anticipano un pomeriggio dall’aere chiaro e freddo. Dall’alto si ammirano l’anfiteatro naturale dell’altipiano e, più lontana, la cima del Grappa che riparano la verde pianura veneta dalla quale si levano come monti ancora adolescenti, sulla destra guardando verso oriente, i Colli Euganei. Dietro di essi, ai raggi del sole, l’aria pare più luminosa e l’effetto ricorda quella “luce veneta” di cui raccontano i pittori che hanno a lungo studiato i classici della scuola veneziana, i Bellini, il Carpaccio, i Vivarini, fino al Canaletto e poi i pallidi e bravi maestri ottocenteschi che hanno ritratto i paesaggi della laguna. Credo che questo sia perché, visto dall’occidente, quale è la stazione berica rispetto alle lagune, il sole mattinale che sorge dal mare rifrange come su di uno specchio i suoi raggi sulle acque dell’alto Adriatico e queste rendono con i raggi riflessi la luce ricevuta all’aria sovrastante e la investono di chiarità. Gli strati d’aria adagiati sulla superficie delle acque sono sempre saturi di “vapori” e le particelle di questi sono le minutissime gocce che si accendono tanto ai raggi diretti quanto a quelli rifratti e creano quell’indicibile senso di luce ovunque diffusa, quasi di dissoluzione delle ombre, che fa sì che Venezia in certi momenti non appaia altro che come un leggero cristallo sospeso tra le acque e il cielo.
Come non ricordare qui la precisa tecnica del Canaletto, radicata con tutta probabilità su questo fatto e raffinata dal Veneziano non solo nelle tavole a colori ma addirittura nel disegno a penna e nell’incisione: si rende il senso completo dello spazio che si apre a dismisura nelle fughe prospettiche delle quali il Veneziano è uno dei sommi maestri, con l’attenta dosatura del colore o dello spessore del tratto d’inchiostro e della sua trama regolare usati, nel dipinto o nel disegno, per rappresentare le “arie”, i “vapori”, e le nubi che, lontanissime, quasi toccano lo specchio delle acque o le creste degli edifici e dei monti e in certi momenti del dì atmosferico si caricano di luce. Una sorta di rappresentazione dunque di ciò che se è di per sé impercettibile, pure agisce sui nostri occhi e filtra i colori rinvigorendo l’impressione della distanza: l’elemento aereo. Dalla mia collina continuo, intra queste riflessioni ad guardare il cielo che, ora, con l’aria che è divenuta leggermente nebbiosa e i cumuli che si son fatti più grigi, a tratti molto scuri, appare così prossimo che pare vi si possa quasi affondare la mano. Qua e là nella lotta dei cumuli, in lento ma continuo moto nell’aria fredda, si formano delle aperture verso il celeste luminoso: sopra le nubi del dì regna imperturbato il sole.
Questi squarci nella compagine delle nuvole mi appaiono esattamente come delle fughe prospettiche verso l’alto, nel celeste che mi sembra essere fatto della sostanza della luce stessa. Sovrastano i bassi cumuli grigi, che qua e là assumono del colore opaco e ora è un oro antico brunissimo, ora è un viola con striature di rosa. D’un tratto le fughe verso il celeste altissimo lasciano intravedere il versante superiore della nube che, investito dall’alto della luce dei raggi solari, assume sembianza d’una montagna di neve. Mi chiedo, di fronte a questo apparire spettacolare che è sempre tale pur essendo assolutamente frequente se solo si volge lo sguardo in alto, se non vi sia una trasposizione pittorica di quanto si vede, una rappresentazione che, dato l’intreccio casuale e illogico dei contorni non può che risolversi in un qualcosa che è come l’astratto, una composizione senza oggetti riconoscibili. Il cielo in tempesta con le aperture verso la luce lo si trova in abbondanza di colori e varietà di contorni nei paesaggisti germanici dell’800, rammento, oltre a dei quadri del Menzel, le nubi agitate di bruno scuro che Carl Anton Rottmann stende in guisa di coperture su desolate lande popolate di rovine elleniche. O, nel quadro, assai bello, “lotte di nubi” di Nikolaj Roerich. Quadri figurativi se li si ammira nell’intero, ma che possono apparire come dei quadri astratti se si copra con un velo tutta la parte inferiore, quella che alberga gli enti riconoscibili come monti, pianure, coste marine e si lasci visibile la parte superiore, le nubi di vario colore e il cielo. Continuo a rimirare la volta celeste e restringo il campo visivo per escludere l’altopiano, il massiccio del Grappa, i colli e fissare quella che mi sembra divenuta ora una carta geografica dove scorrono come continenti e isole le nubi. Il mare celeste essendone l’Oceano sul quale si effettua la perpetua navigazione. Come i continenti si sono mossi ed han variato i loro confini con cataclismi e processioni di millenni, così il cielo riassume in un solo dì nuvoloso e però chiaro quello che possono essere state le ere di questo pianeta. La sera naufragano le nubi nel lento farsi dell’oscurità. E il ciclo si compie. Qua e là, nelle fughe che si aprono verso la profondità notturna, l’occhio scorge la fioritura di qualche stella.
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