Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Federico il Grande di Prussia
Avevo letto di Federico il Grande di Prussia quanto si trova sulla nostra enciclopedia edita in grazia del senatore Treccani, bresciano lungimirante e generoso. L’avvio alla curiosità per la vita del principe della storia germanica mi era dato dalle letture memoriali, fra queste gli scritti del Generalmayor Heinz Guderian, il geniale condottiero delle truppe corazzate. Sapevo, per via delle favole che si raccontano, pure del bufalo che era stato suo padre Federico Guglielmo, il re sergente che si era dato a formare la strana guardia composta di Lange Kerle, gli “spilungoni”, soldati che dovevano esser alti almeno sei piedi prussiani, e che passava le sue serate immerso nelle volute del fumo delle pipe con i fidati sodali del Tabak Kollegium, questo tanto per rammentare le cose più pittoresche. Che il rozzo bufalo non fosse uno sprovveduto nell’educazione del futuro Re lo deducevo fin da una delle prime linee nella voce della Treccani: il motto imposto dal padre, di natura assai concreto, alle fantasie nebulose e romantiche del figlio ed erede al trono, dalla sensibilità delicata, era di quelli che si ricordano per sempre: Halte dich an das Reelle. Ovvero “attieniti a ciò che è reale”. O forse, data la differente espressività del tedesco: “tieniti solo a ciò che è reale”. Una massima degna di Elleni arcaici che cerco di non obliare mai. Del grande Federico incontravo poi le graziosissime avventure disegnate dai geniali Richard Knötel e Carl Röchling, i pittori delle uniformi militari che avevano raccolto, per via di 50 immagini ciascuno, in due volumetti oggi preziosi, da una parte la vita del Sovrano e filosofo berlinese e dall’altra la vita della sposa del suo nipote e successore, la famosa regina Luisa. Quest’ultima celebratissima per la bellezza, ricordata pel coraggio mostrato nel colloquio in Berlino con il Napoleone vittorioso di Jena, rammentata però come non così geistreich, ovvero non così “dotata di spirito”, leggi “intelligente”, da un caustico von Humboldt. Mi scorrono certo nella memoria alcuni dei quadretti di Knötel e Röchling per la loro pittoresca vivacità nel raccontare la vita di questo Sovrano rivoluzionario letterato e musico, tuttavia per attenermi anch’io al reale voglio trascrivere il testo d’una sua lettera a Christoph Heinrich Myller scritta in occasione dell’invio che quest’ultimo, un filologo di rango, gli aveva fatto dell’edizione completa del Canto dei Nibelunghi, il poema epico risalente al medioevo tedesco. La trascrivo perché in essa lo scetticismo e la gaia ironia del geniale Re sono palesi nei confronti del pur interessante poema, e ciò davvero in contrasto con la piega successiva che gli avvenimenti storici e la musica di Richard Wagner hanno dato alla fama di quest’opera. Questa dunque la lettera del 22 febbraio 1784:
Hochgelahrter, lieber Getreuer!
Ihr urtheilt viel zu vorteilhafft von denen Gedichten aus dem 12., 13. und 14. Seculo, deren Druck Ihr befördert habet, und zur Bereicherung der Teutschen Sprache so brauchbar haltet. Meiner Einsicht nach sind solche nicht einen Schuss Pulver werth; und verdienten nicht aus dem Staube der Vergessenheit gezogen zu werden. In meiner Bücher-Sammlung wenigstens würde Ich dergleichen elendes Zeug nicht dulten; sondern herausschmeißen. Das Mir davon eingesandte Exemplar mag dahero sein Schicksal in der dortigen großen Bibliothek abwarten. Viele Nachfrage verspricht aber solchem nicht,
Euer sonst gnädiger König Frch.
Cui allego un mio tentativo di traduzione cercando di palesarne lo stile dell’epoca:
Coltissimo e caro Sodale,
voi giudicate troppo benevolmente codeste poesie del dodicesimo tredicesimo e quattordicesimo secolo, la cui stampa avete promosso e delle quali tenete in istima abbiano ad arricchire la lingua tedesca. Secondo la mia opinione questi poemi non valgon che un pugno di polvere; e non meritavano d’esser rovistati dalle ceneri dell’oblìo. Nella mia collezione di volumi quantomeno non sopporterei d’aver un così miserevole oggetto e ve lo scaccerei via. L’esemplare che mi avete inviato può dunque attendersi il proprio destino nella grande biblioteca. Ma non credo verrà molto richiesto.
Vostro in ogni caso grato Re Federico.
Non vi è necessità di aggiungere molto, l’annotazione del “vecchio Fritz”, sul poema è senza appello. Che sia ingiusta o meno ciò credo sia solo una questione di gusto letterario. La mia simpatia pel re e filosofo berlinese non è nuova, tuttavia e indipendentemente da essa devo dire che non sento né ho mai sentito soverchia voglia di dedicarmi alla lettura del lungo poema. Da un succinto riassunto che avevo scorso in un’antologia ne rammento però una bella immagine poetica, quando si descrive l’ingresso nella sala dell’eroina della vicenda raccontata: “come la luna al diradarsi dalle nubi oscura col suo chiarore tutte le stelle” così appariva Crimilde ed offuscava con la sua bellezza le altre donne. L’immagine è effettivamente assai suggestiva e travalica il confine del poema: quando le nubi si diradano nei nostri cieli freddi di primavera ed appare in tutto il suo splendore la luna che proietta i suoi riverberi argentati sui lembi ancora vicini delle nubi e sul paesaggio scende il manto di luce lievissima lo spettacolo è di quelli che non lasciano insensibili.
Lo scettico Federico non fu il solo ad esprimere ironiche perplessità sul poema e i componimenti annessi a quella prima edizione del Myller del lontano 1784. Entro il volume non vi era infatti il solo Nibelungenlied ma esso ospitava fra gli altri pure l’oscuro Parcival di Wolfram von Eschenbach e vari canti von der Minnen le poesie galanti del primo medioevo tedesco. Anche uno spirito a lui affine nel pessimismo sulle doti della nostra specie, espresso nel memorabile vous ne savez pas, mon cher, à quelle race maudite nous appartenons proferito al ministro Sulzer, non fu certo prodigo di benevoli commenti sul Nibelungenlied. Arthur Schopenhauer come Federico era convinto dalla sua lunga frequentazione con l’Iliade, con i classici del Siglo de Oro, con lo Shakespeare, e con i Latini della modestia di quelle prime prove di poesia tedesca. Forse non aveva del tutto ragione ma certo non era il suo un giudizio avventato. Mi fa sorridere il pensare di come abbiano potuto entrambi accogliere, posto poi che le abbiano volute leggere per intero, se non con malcelato scherno le poesie sulle doti della donna del ciclo von der Minne…
Non credo di esser molto distante dal vero se immagino che il motto halte dich an das Reelle sia stato preso come non trascurabile avviso pure dal burbero filosofo del mondo come volontà e rappresentazione.
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