Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Sigfrido Bartolini con il suo immancabile basco in una fotografia della mostra del Pinocchio a Roma a Palazzo Valentini
La prima volta che ho visto Sigfrido Bartolini deve essere stato intoro alla metà degli anni ’70, ad un convegno romano della Fondazione Gioacchino Volpe. C’erano tra palco e platea illustri cattedratici, onusti di anni, signore e signori della buona borghesia alcuni esemplari perfettamente conservati di quella che una volta era stata l’aristocrazia papalina e ora sbrigativamente si vedeva derubricata alla voce “nobiltà nera”, dove il colore non stava più ad indicare la vicinanza all’abito talare, ma a una più sospetta e dannata connotazione ideologica, qualche intellettuale dissidente fuggito dal comunismo dell’Unione Sovietica e quei pochi intellettuali dissidenti dell’Italia laica, repubblicana e antifascista che si ritrovavano nella condizione di esuli senza nemmeno aver avuto bisogno di andare all’estero, esuli in patria, appunto.
E poi c’era Sigfrido che dritto come un fuso, era senza cravatta, teneva il colletto della camicia bianca impeccabilmente sotto un pullover blu con la zip, un superbo basco nero inclinato sulla testa, una forte rassomiglianza con l’attore francese Gerard Philippe… Il tema del convegno era la libertà dell’arte e quella dello storico, o qualcosa del genere, Bartolini aveva già tenuto la sua relazione era arrivato il momento del dibattito, ma i lavori languivano, perché il tono generale era un po’ troppo da “illustre collega” ,”esimio maestro” e si capiva che i baroni universitari, per quanto emeriti, in pensione o fuori ruolo, ci avevano messo il cappello sopra e non intendevano più levarlo.
Il pubblico si annoiava, gli esuli russi e quelli italiani alzavano gli occhi al cielo…così Sigfrido chiese di nuovo la parola, marciò verso il palco e senza togliersi il basco fece un paradossale ma convincente elogio delle Brigate Rosse... «Lo devo assolutamente conoscere» mi dissi, mentre i lavori venivano chiusi in tutta fretta.
Chi fosse Bartolini naturalmente lo sapevo. Avevo cominciato a leggerlo sul «Borghese» alla fine degli anni ’60. Pittore, incisore, illustratore, non era quel che si dice una firma prolifica, un pugno di articoli l’anno, ma ogni volta lasciava il segno.
Aveva esordito con un’inchiesta straordinaria, la truffa nell’arte dedicata alla falsificazione nel campo dell’opera incisa, l’orgia di riproduzioni meccaniche che uccide la stampa originale, e poi erano venuti i ritratti di Sironi e quelli di Maccari, le polemiche sull’arte d’avanguardia e sul business della modernità.
Non erano mai scritti d’occasione, articoli “alimentari” o per onore di firma: si capiva che scriveva quando aveva qualcosa da dire e su ciò che veramente lo interessava.
Possedeva anche una vena ironica, squisitamente toscana: pochi mesi prima di quel convegno sempre sul settimanale diretto da Mario Tedeschi, aveva pubblicato un pezzo in cui raccontava di aver fatto affiggere all’istituto d’arte dove insegnava, il regolamento scolastico allora vigente nell’URSS spacciandolo per un testo ottocentesco di Dickens.
Molti degli studenti e non pochi dei suoi colleghi erano usciti da quella lettura rafforzati nella convinzione che il capitalismo e l’imperialismo britannico fossero la sentina di tutti i mali…
Io non ho il “feticismo degli incontri “ e non vado in giro a collezionare nomi. Spesso una conoscenza diretta degli autori che ami è fonte di disillusione e i romanzieri, i poeti, gli artisti, persino i giornalisti, è meglio conoscerli attraverso le opere che non di persona: ciò che li è illuminato e rifinito, plasticamente reso, faticosamente, ma compiutamente realizzato, nella quotidianità, negli accidenti e negli incidenti della vita si perde, se ne scorgono le crepe, vengono alla luce debolezze e compromissioni, c’è uno scarto fra ciò che la tua fantasia e anche la tua intelligenza ha loro prestato è ha da loro ricavato, è ciò che la realtà ti consegna davanti.
Sigfrido Bartolini è una delle rare eccezioni a questa regola e il rimpianto, adesso che se n’è andato a 75 anni, non è l’averlo frequentato ma l’averlo fatto meno di quanto avrei potuto e forse dovuto fare.
Un artista libero un uomo semplice, ovvero sano, una persona perbene. Se dovessi riassumere con una frase la sua attività giornalistica, direi che Bartolini è sempre stato dalla parte di una minoranza e nel segno di un’amicizia. Per tutti gli anni ’70 la sua firma è più collegata a nomi di colleghi amici che non a una testata. Quando i primi lasciano la seconda lui va via con loro. Fu così per il «Conciliatore», mensile legato al «Borghese» di cui era direttore Piero capello, per il «Roma» di Piero Buscaroli, per il trimestrale «Elementi” che diressi io, per il «Settimanale” ai tempi di Alfredo Cattabiani, per le edizioni Volpe…
Quando, per un motivo o per un altro, cambiavano le direzioni dei giornali o dei rispettivi servizi culturali, lasciava anche Bartolini: le sue erano scelte basate più sulla comunanza d’idee o su una simpatia intellettuale e/o amicale che su una logica professionale e/o materiale.
Questo spiega anche il tipo particolare di periodici che negli anni hanno visto la sua firma, il continente sommerso di un giornalismo di destra sempre più ridotto nelle sue dimensioni, e sempre meno in rado di modificare i propri confini, chiuso a sinistra in nome dello scontro ideologico, respinto dal centro per paura delle contaminazioni.
Il risultato sarà il deserto degli anni ’80, nei quali infatti il, Bartolini pubblicista farà altro, le monografie dedicate a Lega Bodini, Stanghellini, Rosai, l’uscita della monumentale edizione nazionale del Pinocchio di Collodi illustrato.
Su quest’ultima vale la pena soffermarsi un momento, perché l’aver dedicato dodici anni della propria esistenza in una società che della rapidità e dello spreco fa la sua ragion d’essere, a illustrare un solo libro, 309 xilografie in bianco e nero e a colori, che non sono solo un capolavoro d’arte, ma un’operazione filologica di recupero del nostro passato qual è raro vedere, da la dimensione perfetta del tipo umano da lui incarnato.
Alla metà degli anno’90 quando Vittorio Feltri andò a dirigere «il Giornale» e il sottoscritto le pagine della cultura, Sigfrido Bartolini fu naturalmente della partita. Nei quattro anni di quell’esperienza, scrisse più di cento articoli: dalla tradizione figurativa italiana ai grandi nomi della pittura e dell’incisione europea (da Dürer a Goya, da Matisse a Utrillo, a Corot), ai fatti e misfatti, nomi, miti ed equivoci dell’arte contemporanea. Un corpus critico di primordine, un motivo d’orgoglio per il quotidiano che glieli pubblicò, una grande soddisfazione del sottoscritto, la consapevolezza che in quel campo era la persona giusta, uno stile chiaro e piacevole, un’assoluta padronanza della materia.
Per me l’arte di Bartolini ha sempre avuto un’aura malinconica e severa. C’era questa sua abilità d’incisore acqueforti, xilografie, la leggerezza degli acquerelli, la profondità degli olii.
Sigfrido ha attraversato ha attraversato l’avventura astratta o informale, con tutto il suo corteo di cordate, compiacenze critiche, mode, scandali e quattrini, tenendosi coerente al suo figurativo, casali, marine, nature. Ma era un figurativo assolutamente anomalo, ovvero senza figure, senza volti, una specie di mondo ai confini del mondo, dove l’essere umano era scomparso e rimanevano le vestigia del suo passato, case che sembravano fortezze, spiagge solitarie, paesaggi con rovine.
La sua bellissima casa di Pistoia era una specie di officina delle meraviglie, scandita intorno alla sua persona, al suo lavoro, la biblioteca dove leggere, la stanza dove incidere, quella per dipingere, il grande salone, con una copia della Venere di Milo sullo sfondo, dove chiacchierare.
Credeva nel lavoro Sigfrido, non nel colpo di genio, vedeva nell’artigianato la base della pittura della scultura, il pittore e lo scultore come uomini della manualità pennelli e scalpelli la loro felicità e la loro condanna da sempre «Le arti figurative –diceva– da sempre si studiano e si giudicano per la qualità di mezzi espressivi tutti propri che niente hanno in comune con la letteratura. Senza far l’elogio dell’astrattismo, immagini e simboli sono, appunto valori estranei ai valori pittorici».
La sua critica all’arte contemporanea non nasceva insomma da moralismi o ideologismi: affondava le sue radici nell’essenza stessa dell’arte, del suo significato, della sua ragion d’essere. Era la critica di un artista che si interrogava anche su se stesso sul senso del proprio lavoro, sulla validità o meno delle scelte fatte.
Nato in un tempo che non era il suo quindi condannato alla solitudine, una solitudine, credo, che neppure l’amore per la moglie, figura chiave nel permettergli do stare al mondo senza doverne fare parte, l’affetto per due splendidi figli, sono mai riusciti a sconfiggere, a quel tempo Bartolini ha cercato comunque di imprimere il segno di una differenza spesso sofferta, mai rinunciatrice, sempre libera.
Uno stile di vita in un’epoca senza più stili.
Ci mancherà un uomo così. Mi Mancherà.
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