Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
È sera. La temperatura è di quel gelo reso gradevole dal fatto che vi è assenza completa di vapore acqueo, ragion per cui basta un buon maglione di lana e una giubba che non lasci passare il vento per fare una splendida passeggiata sul Rosenberg ammirando il cielo stellato. Le macchie nere dei boschi che appaiono ai lati del cammino assomigliano a battaglioni di granatieri napoleonici tesi nella silente attesa d’un ordine che li scagli all’assalto. Questa però è solo una mia fantasia. Non si dava battaglia di notte, a quel tempo. Solo in rari casi come in quello coronato da vittoria di Federico il Grande nella guerra dei sette anni. Lo spettacolo del paesaggio svizzero con le sue luci accese nella campagna ai lati dei casolari, le cime degli abeti che sembrano oscillare al vento ma sono in realtà ferme, non c’è alcun moto d’aria in questo momento ed è il loro essere troppo esili a farle sembrare come in una lenta danza, il latrato dei cani lontano, il cielo con la sua fioritura di astri luminosi sono tali per intensità che devo per forza entrare nella biblioteca dell’università. Ma è solo per una diluizione omeopatica. Lascio infatti acquietare le impressioni ricevute nella salita all’aria aperta coll’ingresso nei locali ultramoderni e caldi del fabbricato che ha una curiosa piramide trasparente al posto del tetto. Voglio passeggiare nella campagna più tardi, verso la mezzanotte, dopo che mi sono immerso nelle letture a mio modo. Come un delfino che si tuffa e riaffiora, si rituffa e così via nella sua traiettoria ondulata, io, dalle scansìe metalliche, traggo un volume dal titolo o autore interessanti, lo sfoglio velocemente, leggo qua e là, e lo ripongo. Cose che si possono fare in questa bella biblioteca dove i tomi sono schedati magneticamente ed il lettore, dopo aver cercato nel catalogo un titolo ne riceve la collocazione e vi si reca lungo i corridoi. Questi sono in realtà tracciati dagli scaffali che albergano i volumi. Naturale che chi vada verso il suo libro rimanga lungo la strada colpito da qualche altro volume che spicca fra gli altri e allungando la mano effettui una sosta estraendolo per sfogliarlo un istante. A volte lo sfogliare diviene leggere ed ecco che un tavolino sguarnito nei pressi si presta colla sua sedia al prolungamento della sosta. Le pareti della biblioteca sono in cristallo come la curiosa piramide che ne è la copertura e lasciano intravedere lo scorrere delle ore col passaggio dalla luce al crepuscolo.
L’università è la più famosa della Svizzera per l’economia e la finanza. Discende dall’antica Handelsakademie di San Gallo che porta ancora il ricordo del commercio dei delicatissimi pizzi che hanno dato alla città meritata fama unitamente alla Stiftbibliothek custode di antichi codici miniati ed al complesso abbaziale cattolico, meraviglioso e barocco. Strano contrappunto moderno: se la vetusta Handelsakademie doveva istruire i bravi svizzeri al commercio leale, che consta nel fatto di cedere dei pizzi che hanno raro eguale per finezza artistica e bella fattura, e ricevere dei beni altrettanto di valore tanto in qualità che in adeguata quantità, è sicuro che oggi le dottrine dell’alta finanza abbiano quale loro fondamento proprio quello della lealtà? E lealtà passa tutto, come leggo nella biblioteca dell’università su di un saggio che raccoglie tutti i cartigli dannunziani trovati nei cassetti del Vittoriale. Oppure: l’etica si riassume nella lealtà, le altre virtù sono i paragrafi della casuistica, come da un frammento che ricordo essere di Nicolas Gomez Davila. Dunque il contrappunto: dai pizzi delicati, dai codici che raccontano le storie della prima letteratura tedesca, dalle dolci campagne in vista del lago di Costanza vegliate dal buon Säntis, il monte che ripara a sud la città, l’antica scuola si è transitata con successo nell’università che deve ricamare sempre nuove ragioni teoriche o meno alla produzione. Ma la produzione spesso diviene il mostro senza volto il cui motto è il nietzschiano fiat productio pereat vita.
Il passato tardo autunno si poteva vedere questo strano spettacolo uscendo dalla biblioteca verso le sette di sera: nell’amplissimo atrio d’ingresso dappertutto tavole imbandite con vini e bocconi appetitosi, studenti e professori rigidamente in abito scuro e cravatta, in piedi e in attesa. Fuori dall’atrio, sulla strada, una processione continua di colossali berline germaniche che si arrestano in corrispondenza del corto cammino che porta alla biblioteca. Ne escono distinti eleganti signori, spesso ancora giovani, almeno all’apparenza, in scuro pure loro e dall’aspetto volitivo. Sceso un signore per auto questa riparte guidata da un giovane autista (sono poi venuto a sapere che si tratta di studenti che si offrono per questo ufficio, ghiotto invero per gli appassionati di tecnica) con il possente sibilo dei motori otto cilindri in progressione continua, stanti i cambi automatici. Fino a quindici auto e oltre ho contato. Un incontro organizzato dal produttore tedesco delle supreme berline per discutere la situazione, il mercato, e presentare agli studenti dell’esclusivo vivaio di talenti le prospettive d’una carriera prestigiosa in un deutsches Automobilkonzern. Incuriosito mi voglio rifare un giro nell’atrio ma dopo i primi metri fra i tavoli mi accorgo che la mia tenuta da passeggiata nei campi dà troppo nell’occhio e sinceramente non voglio passare per il Diogene filosofo che qui si crede di rammentare agli eroi della produzione la cerca dello spirito. Non sono il geniale Elleno e so, oltretutto, che qui non incontrerò un grande Alessandro. Provo una sensazione penosa: le studentesse sono tutte in ghingheri e truccate come delle dive del cinema e mi colpisce l’elevata per non dire elevatissima statura media degli astanti: le donne in tacchi a spillo vertiginosi e i maschi in blu, signori più attempati compresi, altissimi o almeno molto alti. Non credo sia soltanto il senso d’una oppressione quasi corporea che provo in mezzo alla massa che mi fa apparire tutti come molto alti. Sono effettivamente piombato nel mezzo d’una élite che, selezionata per la propria volitività anche nei matrimoni, è davvero di statura ben maggiore delle medie svizzera e tedesca dei giovani, già notevoli di loro stesse. Ho come il senso d’esser sbucato, da animale silvicolo, in una radura popolata di antichi sauri. Sorrido fra me e me ricordando la storia dei lange kerle, gli alti aitanti giovani ricercati dal bufalo prussiano Federico Guglielmo per farne la sua guardia: ne aveva addirittura fatto venire uno di oltre due metri di statura dall’Irlanda. E il re sergente andava oltre: i reclutatori dell’esercito prussiano sguinzagliati per città e campagne non facevano troppi complimenti per trascinare i maschi giovani e alti all’arruolamento. Kant era sfuggito a queste campagne perché la sua statura non superava l’odierno metro e sessanta. Ma sorrido anche perché gli ottocenteschi granatieri russi del vecchio Suvarov o quelli bavaresi di Kesselring tratti l’altro ieri dal buon popolo delle classi di leva qui proverebbero la mia identica impressione di timidezza sentendosi d’improvviso piccoli.
Continuo su questo tema perché mi colpisce. Nel mio delfinare proprio fra i libri di questa biblioteca mi ero imbattuto nelle biografie di Céline, il corazziere normanno che impressionava tutti per l’eccezionale vigore zampillante dal suo genio albergato in una slanciata figura di atleta vichingo. Alto quasi a sfiorare i classici sei piedi ottocenteschi del granatiere russo qui, nella sera del tardo autunno, verrebbe subissato da molti di questi strani sauri in giacca blu o nera del team management del produttore di auto di lusso. E ricordo ancora: sulla famosa causa di tribunale che lo aveva opposto all’eroico Ernst Jünger, lui, il francese, decorato della medaglia al valore, il tedesco insignito pur così giovane e con qualche perplessità di von Hindenburg della pour le Mérite, aveva scoccato, parlando con Armin Moehler, uno dei suoi strali velenosi contro lo scrittore soldato sbottando in un ce petit boche, cette espècie de flic, ovvero: “quel piccolo crucco, quella specie di sbirro”. Come si sarebbe sentito qui, fra questi studenti e dirigenti in blu dalla figura gigantesca e parlanti la sua lingua, le petit boche Ernst Jünger? E come si sarebbe sentito il misantropo Céline improvvisamente non più così spiccatamente alto e quindi prono alle ironie? Che deduzioni ne avrebbero tratto i due grandi con il loro acuto senso di osservazione da naturalisti di laboratorio? Ne ardisco una io di deduzioni, e pure assai burlesca: questi giganti studiano economia e finanza perché inconsapevolmente sono in all’erta che le risorse necessarie ad ambizioni forse smisurate, forse solo materiali, così immanenti in loro tanto da averne plasmato, per un processo quasi lamarckiano, addirittura la figura fisica, si estinguano.
Sono burlesco ma non troppo. Il capitale senza volto è carnivoro e l’industria mi appare come esserne il dente che stringe nelle fauci la vita vivente, né mi convince troppo che esso crei ricchezza ovvero la crea, certo, ma solo in limitate regioni dello spazio e nei corrispettivi intervalli di tempo senza poi nemmeno curarsi di fare come il fiero capitano che dopo aver lanciato la bordata di cannonate dal suo possente vascello scruti soddisfatto con il cannocchiale il danno arrecato alla costa nemica. Non mi esercito nella critica troppo facile, ma ho letto con attenzione ed ammirato la stringente catena di immagini paurose evocate in Die Perfektion der Technik, un volumetto acutissimo di Friedrich Georg, il fratello poeta di Ernst Jünger.
Un ingegnere tedesco attivo nell’industria automobilistica mi aveva fatto notare come le automobili siano oggi sempre più grandi. Avevo ribattuto che, certo, tutti ricercano la vettura spaziosa per avere maggior possibilità di carico. Ma l’ingegnere aveva sorriso della mia inesperta analisi, un importante motivo essendo in realtà, il fatto che aumentano, lungo i decenni e attraverso le generazioni, peso e statura corporee delle popolazioni civilizzate. In effetti dopo alcune di quelle sere del tardo autunno, (questi incontri coi dirigenti della grande industria dell’auto si erano infatti distribuiti su più giorni) devo dire a me stesso che la ragione addotta dall’anziano ingegnere è quella primaria. Ne avevo addirittura una prova curiosa e inaspettata ricordandomi di quando in Padova incontravo per la prima volta una favolosa Tatra 87 del 1938. Berlina 8 cilindri a motore posteriore e linea futurista da misteriosa inquietante creatura ultramarina era ai suoi tempi una automobile di gran lusso, qui a San Gallo, mi raccontano, la si vedeva spesso, tempo addietro, sulle strade condotta dal principe del Liechtenstein. La vedevo dunque, nella città palladiana, splendida nella sua livrea celeste argentato e quieta e parcheggiata vicino ad una loggetta medievale. Fantastico accostamento delle svettanti linee a cuspide dell’architettura gotica colle forme da creatura acquatica della macchina. Il senso strano della pietra gotica che coi suoi bestiari di animali introvabili e simbolici pareva richiamare per una oscura via attraverso i tempi l’animale meccanico carenato e futurista. Costruito, per singolare coincidenza, da un geniale ingegner Ledwinka nella Boemia già rudolfina e arcimboldesca. Ricordo, dunque, di quando una moderna berlina di classe media si parcheggia proprio a lato della Tatra che ammiravo. L’occhio cattura le dimensioni e la possente creatura ultramarina è improvvisamente ridotta ad una macchinetta grande quanto la vettura media. Ma meno imponente di questa e forse solo un poco più lunga. Una di quelle colossali berline germaniche da alto funzionario di banca ma, nelle città tedesche e pure italiane, comuni, e comuni fino alla banalità, avrebbe inghiottita la povera Tatra come la balena aveva fatto con la navicella e il padre di Pinocchio.
Sono passate alcune ore. La biblioteca deve chiudere. Uscendo ripercorro la grande sala dove era stato allestito l’incontro per le carriere. Non ne è rimasta traccia. I pavimenti sono di nuovo specchiati a lucido. Riprendo la passeggiata sul Rosenberg nell’aria gelata notturna. Le finestre delle casette ai lati del viale non mostrano più alcuna luce. Sulla mia destra poco più in basso nel declivio, camminando vedo la piramide di vetro che fa da tetto alla biblioteca oscurare sempre più i riflettori interni fino a spegnersi completamente. Alla luce d’un flebile lampione le foglie degli arbusti d’un giardino che sporgono dalla staccionata brillano lucide e rossastre brunite. Alla fine del viale, presso una casa munita d’un pinnacolo gotico, alla biforcazione in due piccole vie il quadrante luminoso d’un orologio segna l’ora: è oltre mezzanotte. La lancetta dei secondi non scatta da un passo all’altro ma scorre lenta lenta e senza interruzione. Dà la medesima impressione che si ha guardando il filo di sabbia scendere nel vaso inferiore d’una clessidra. Tutt’intorno alberi dormienti e, sopra, il cielo stellato.
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