Editoriale

La “nostra” Europa è un sogno la loro un incubo

Contro l'unione di burocrati ottusi sarebbe occorsa quella delle culture e dell'orgoglio dei popoli

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

ra annunciate marce su Roma, cagnolini da vivisezionare,   propositi irrealizzabili e molta demagogia (trasversalmente distribuita: dal Pd che sbandiera il salario minimo garantito europeo a Berlusconi che chiede il raddoppio delle pensioni sociali) non sembra che la campagna elettorale per il  rinnovo del Parlamento  europeo, ormai in dirittura d’arrivo, abbia chiarito il senso (cioè la direzione in cui ci si vuole incamminare) ed i contenuti  dell’Europa che verrà (posto che quella che c’è  sembra piacere solo ad un elettore su quattro).

La stessa questione “Euro no – Euro sì” non è andata oltre i meri slogan: troppo  “tecnica” per interessare l’opinione pubblica e oggettivamente pericolosa da maneggiare, viste le ricadute politiche ed economiche che sia una scelta che l’altra comporta.

Rispetto a  cinque anni fa, all’ultimo appuntamento elettorale  continentale, l’Europa è parsa più divisa e più lontana dal sentire dei suoi popoli, in preda agli egoismi dei suoi Stati membri e schiacciata dai parametri  finanziari, fatta a fette dalle graduatorie macroeconomiche e sociali, parcellizzata dagli spread: un incubo quotidiano  a cui guardare con timore, covando uno spirito di rivolta, alimentato da  frustrazioni e disillusioni.

Eppure – lasciateci illudere -  un’altra Europa è possibile.

Non è quella dei bla-bla demagogici  e del relativismo etico, mascherato da uguaglianza “di genere”, né quella ingessata nei “parametri”.

E’ quella che ci accompagnò lungo gli stretti anni della guerra “per blocchi”. Europa  olimpica e dorica, protesa, da Capo Sounion,  per  farsi abbracciare dal Mediterraneo,  Madre antica  che non teme le notti glaciali,  certa, nell’attesa,  che la luce tornerà ad irradiarla.

Europa di templi e di dei, romana ed imperiale, audace e guerriera. Cervello socratico e cuore cristiano – come scrisse un grande europeista spagnolo (Salvador de Madariaga).  Capace di specchiarsi nei vetri delle sue cattedrali, segno d’una epoca splendente  d’oro, d’argento, d’azzurro, di rossi e di verdi, fiammeggiante –  scrisse un  incompreso europeista francese (Drieu La Rochelle) – sui portali delle chiese, nei saloni dei castelli, nelle case dei borghesi e dei fattori.

Europa  d’incunaboli e di immaginazioni futuriste, nel lungo rosario di genialità artistiche, scientifiche, drammaturgiche. Europa del lavoro e del diritto, capace di farsi esempio di civiltà. Eravamo/siamo diversi? Certamente, ma – per dirla con Jose Ortega – “perché una Nazione esista è sufficiente che essa abbia coscienza del suo esistere”.

Ed allora un’altra Europa   avrebbe potuto essere, se avesse pensato meno  o non solo a farsi strumento burocratico,   orizzonte codificato entro cui morire d’inedia, coltivando i piccoli egoismi nazionali. Se da quella Storia avesse tratto coscienza  del proprio ruolo e quindi nuova linfa per una politica adeguata alle sfide continentali che ci ha portato il Terzo Millennio.

A questa Europa bisognerà tornare a guardare, prima o poi. Nei cenacoli intellettuali, nelle Università, tra  le giovani generazioni, nel mondo del lavoro. E da lì muovere per costruire una grande politica d’integrazione continentale, forte delle proprie tradizioni e di aspettative condivise.   Per tornare insomma a sognare oltre gli incubi dell’ora presente.

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