Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
a pubblicità è l’anima del commercio”, un tempo si diceva così. Poi il concetto si è affinato è stato espunto il termine “anima”, forse troppo impegnativo, e la faccenda è finita in mano ad una pletora di professionisti della comunicazione, dell’analisi antropologica, della classificazione sociale e della sociologia.
Il fine però è rimasto il solito: affibbiare un prodotto ad un consumatore, previa trasformazione dell’individuo in consumatore possibilmente di cose inutili.
Ovviamente la libera, liberissima concorrenza ha trasformato la pubblicità in un’arma di offesa e di difesa (contro e da i concorrenti) e, come spesso accade, gli strumenti della Guerra Mondiale Commerciale sono divenuti sempre più raffinati al punto da dissimulare la loro essenza.
Tutto cominciò con il mitico Carosello che, raccontando una storiella apparentemente estranea al prodotto da reclamizzare, dopo aver catturato l’attenzione del telespettatore, gli infliggeva a sorpresa il messaggio commerciale.
Erano tempi senza eccessive pretese, la tv era l’elettrodomestico intorno al quale si riunivano le famiglie all’ora di cena, i bambini andavano a letto dopo Carosello e in quel ben articolato siparietto di pubblicità c’era fotografata l’Italia del bianco e nero: i bimbi si appassionavano alle avventure di Calimero che con il detersivo Ava tornava bello bianco e splendente; gli adulti ridevano delle gag di Walter Chiari che pubblicizzava la carne in scatola Simmental o di Gino Bramieri che faceva conoscere il nuovissimo Moplen (“…e mo’ e mo’ Moplen”, oppure “…la signora guardi ben che sia fatto di Moplen)” brevetto della plastica prodotto dalla mitica Montecatini.
Poi vennero i tempi della pubblicità dissacrante. Vi ricordate il lato B della modella Donna Jordan inguantato in un paio di short particolarmente succinti accompagnato dallo slogan “Chi mi ama mi segua”? Si trattava del primo marchio italiano di jeans, la Jesus, al quale Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella, procurarono, oltre ad una non indifferente quantità di polemiche, anche l’indignazione di uno che certo non apparteneva al prototipo del borghese di strette vedute, Pier Paolo Pasolini che dedicò allo scandaloso slogan uno dei suoi scritticorsari sul «Corriere della Sera»
Correva l’anno 1973 e quella era ancora un’Italia capace di indignarsi, era ancora un paese dove l’antico senso della bellezza non era ancora completamente morto, dove l’etica estetica costituiva un valore per quanto traballante e continuamente messo in discussione.
Era un’Italia che cominciava nei fatti a mettere in discussione il proprio passato aprendo le porte alla sua prossima cancellazione equivocando, nella vulgata, il significato dei termini progressismo e conservatorismo, attribuendo il primo la spinta positiva verso l’innovazione e le nuove conquiste in ogni campo e al secondo l’immobilismo sterile.
Poi vennero gli anni ’80 dell’edonismo esagerato come le spalline degli abiti che indossavamo, il decennio che aprì le porte alla speculazione finanziaria, e elesse Wall street a tempio della nuova liturgia del denaro. La pubblicità esasperò e moltiplicò il nuovo messaggio proponendo modelli di bellezza femminile sempre più inarrivabili e artificiali, creando bisogni che non erano tali, obbligandoci a diventare definitivamente consumatori prima che cittadini.
Poi tutti sanno come è andata a finire: il tracollo mondiale, la crisi globale che in Italia morde in maniera più dura che altrove.
Così siamo diventati consumatori dimezzati, rappresentiamo un mercato asfittico a meno che non si modifichi il messaggio imponendo la nuova religione del “risparmio”. E siamo diventati consumatori risparmiatori. Ci propongono la macchinetta per fare l’acqua frizzante a casa (versione aggiornata della vecchia bustina di Idrolitina da sciogliere nella bottiglia), il detersivo che (come un tempo seppure in forma diversa) si mette direttamente nel cestello della lavatrice, gli elettrodomestici a risparmio di energia, le auto elettriche, e via dicendo.
Un capitolo a parte del nuovo trend del risparmio, sacrosanto e necessario, è quello delle lampadine per illuminare.
Quelle a incandescenza consumano troppa energia, quindi via dalle nostre case, dalle nostre scrivanie, dai nostri salotti. Al loro posto le lampade a basso consumo, orribili a vedersi con quelle serpentine che ricordano i neon e fanno una luce assai simile, si accedono lentamente (anche se le ultime hanno migliorato le prestazioni) e soprattutto fanno una luce fredda tendenzialemnte sgradevole. L’alternativa sono le lampadine a led (carissime per quanto di lunga durata) altrettanto brutte.
Con le nuove lampade finisce il tempo dei bei lampadari, della luce che decora con la grazia naturale del fuoco di cui mima il calore e l’iridescenza, finisce l’era della luce come l’avevano conosciuta i nostri nonni e tutte le generazioni che ci hanno preceduto comprese quelle che avevano usato le candele di cera o il lume a petrolio. Non è un caso che le vecchie lampadine a incandescenza misurassero la potenza a numero di candele segno di una continuità ormai finita.
E va bene, è andata così, dobbiamo adeguarci e lo faremo, ma quel che è insopportabile è la pubblicità che Enel energia sta trasmettendo per vantare le nuove bruttissime lampade, e lo fa invocando il cambiamento dei tempi che pretendono non tanto il necessario risparmio, ma con esso la rinuncia alla bellezza. Il sol (pardon la lampadina) dell’avvenire è brutta ma almeno è il futuro…
Già per quel “genio” che si è inventato la pubblicità di Enel energia, guardare avanti significa rinunciare alla bellezza di un tempo e sposare la bruttezza del domani:
«Ma quanto erano belle le case di una volta: le credenze in radica, in centrini all’uncinetto, i cani di porcellana. Quanto erano eleganti le tende damascate, le abat jour, i lampadari di cristallo; sì, erano belle, ma adesso è tempo di guardare avanti…» a questo punto una voce fuori campo invita a acquisare il kit di lampade a led che fanno rispamiare, mentre l’attore, che fino ad ora ha decantato le belle cose di una volta, avvita una bruta lampadina ad un altrettanto brutto porta-lampada ed esorta a “guardare avanti” con Enel energia”
Allora facciamo un appello ai vertici di Enel. Per favore licenziate quel pubblicitario che esalta il brutto, noi accettiamo di rinunciare alle belle cose di una volta, ma come una necessità dolorosa che i tempi impongono, non toglieteci anche la dignità di quel che rimane del nostro senso estetico!
Inserito da ghorio il 03/06/2014 17:38:32
Condivido e sottoscrivo l'editoriale di Simonetta Bartolini. Quanto alla pubblicità di Enel Energia tutto s'inquadra nell'impostazione di norme europee sull'energia che hanno portato a confusione totale con Enel che fa concorrenza a Enel energia e cosi tante altre aziende concorrenti. Enel tra l'altro fa evocare le tante decisione sbagliate dei governi dell'epoca, con la nazionalizzazione pagata cifre sbalorditive , poi la messa sul mercato e la quotazione in borsa, con il risultato che le nostre tariffe sull'energia sono almeno il 30 per cento in più, rispetto alle tariffe medie dell'Ue. Stendiamo un velo pietoso poi sui compensi astronomici di presidenti, consigli di amministrazione e amministratore delegato. Ma questa è l'Italia dell'ultimo trentennio: una serie di privilegi per la cosiddetta casta che continuano imperterriti, nonostante i libri di Raffaele Costa, di Stella, di Rizzo, di Giordano , di Livadiotti e così via.
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