Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
nica 8 otto giugno, nel bellissimo scenario di una chiesa immersa nella campagna forlivese, più di duecento persone ascoltano, attente e commosse, una testimonianza su Carlo I d’Asburgo, ultimo sovrano dell’impero austro ungarico. Il titolo dell’incontro è molto impegnativo e suggestivo: Carlo I d’Austria; nulla ci esenta dalla santità. [1]
Il volto è quello di un ragazzo: spesso sorridente, una espressione che denota quella autentica gioia di vivere che unicamente chi ha un perfetto equilibrio interiore può non solo provare, ma diffondere intorno a sé, anche nelle circostanze più avverse Uno sguardo carico di dolcezza, ma anche fermo, penetrante, deciso.
L’avventura di Carlo I d’Asburgo Lorena, ultimo imperatore dell’Austria Ungheria e quindi per molti aspetti ultimo imperatore romano, iniziò ad appena 27 anni, una maledetta domenica di giungo, forse una delle date più nefaste di tutta la storia dell’umanità. Con il solito gesto vigliacco di chi si acquatta nell’ombra come una serpe per colpire all’improvviso, Gavrilo Princip assassinava a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, mettendo in moto la tragica catena di eventi che porterà alla prima guerra mondiale.
Quell’evento era destinato a cambiare, ovviamente in peggio, milioni di vite, sconvolgere la carta geopolitica dell’Europa senza affatto migliorala, anzi creando ibridi e mostruosità le cui conseguenze pesano ancora oggi. E portò alla ribalta una giovane coppia che, sino a quel momento, era rimasta abbastanza in disparte.
Per i nostri giorni, le poche monarchie rimaste sembrano esistere soprattutto in funzione dei rotocalchi. Certo, si può obiettare che da sempre le teste coronate hanno fatto notizia e sicuramente il “gazzettino di Versailles” era in pieno diciassettesimo secolo perfettamente efficiente anche senza bisogno di supporti cartacei. Ma allora la Monarchia era anche altro e lo scandalo non rappresentava la norma, ma l’eccezione.
Carlo d’Asburgo e Zita di Borbone Parma, la sua bellissima sposa, sui rotocalchi invece c’erano stati ben poco e mai per pettegolezzi malevoli. La loro unione sembrò conciliare le ragioni del cuore con quelle di dinastiche: erano due persone che si amavano profondamente e che vissero il vincolo sponsale come una grazia più che si rinnovava quotidianamente. Una famiglia modello, sul piano religioso certo ma anche e soprattutto su un piano di etica laica (nel vero senso del termine, non in quello contraffatto che si usa oggi.) Dopo la prima guerra mondiale, già nell’ultimo periodo di vita del sovrano ormai vinto e isolato, ma mai umiliato o colpito nella sua dignità, i suoi nemici e in particolare quegli ambienti massonici che lo avevano sempre avversato, tentarono di creare una leggenda nera che lo voleva un uomo poco intelligente, dedito al bere e naturalmente con una amante segreta. Un cliché ormai corroso e abusato – risale agli storici dell’antica Roma! – che non resse ad un’analisi appena superficiale: la misteriosa “amante” del sovrano risultò essere un personaggio neppure esistito! E sul ruolo nefasto della massoneria contro l’impero e il suo ultimo sovrano oggi le testimonianze non mancano di certo, anche se si finge spesso e volentieri di ignorarle. [2]
Sono molti gli esempi che si potrebbero citare, di armonia e di sinergia della coppia imperiale; ma uno dei più significativi è forse questo: Zita volle essere a fianco del marito – pur essendo già in attesa dell’ottavo figlio – nel momento del secondo e purtroppo sfortunato tentativo di restaurazione in Ungheria, nell’ottobre 1921, affrontando nientemeno che un viaggio in aereo. Dopo aver provveduto a mettere al sicuro il resto della famiglia, Zita rispose a chi cercava di trattenerla e farle mutare parere:
“Non cerchi di farmi cambiare idea (…) l’imperatore affronta il pericolo e quindi il mio dovere di moglie va anteposto al mio dovere di madre (…) si astenga dal descrivermi i rischi del viaggio; non farebbe altro che rafforzare la mia decisione (…) sono la regina d’Ungheria e se il re vi ritorna, il mio posto è al suo fianco.”
Se fino al giugno 1914 la coppia dei giovani arciduchi aveva cercato di non urtare la suscettibilità dell’erede al trono Francesco Ferdinando e della moglie morganatica Sofia, con cui peraltro andavano perfettamente d’accordo, da quel momento Carlo,ormai vicino alla successione, divenne un personaggio di primo piano. Ma come il mitico prozio, il grande Francesco Giuseppe I sul trono dal remoto 1848, Carlo non amava le luci della ribalta. Convito che il dovere di un principe fosse quello di servire il suo sovrano, il suo paese e i suoi popoli, preferiva agire.
La guerra lo pose nella duplice condizione di dover assistere il prozio imperatore e partecipare alle operazioni militare. Non si sottrasse a nessuno dei due doveri:al fronte rivelerà coraggio personale, sprezzo del pericolo e ottime capacità strategiche, riconosciutegli persino da quei prussiani che disprezzavano il suo fervore religioso. Ma oltre a questo, due altre doti importantissime: la capacità di essere vicino ai suoi soldati, di incoraggiarli e di cercare sempre di agire con il massimo risparmio di vite umane, in un conflitto che fu una vera e propria macelleria. A differenza di quanto accadeva ad esempio presso gli alti comandi italiani, per lui la vita di ogni uomo era preziosa, E i risultati furono notevoli: soprattutto a partire dal 1916, Il suo operato fu decisivo per sconfiggere la Romania e per arrestare l’avanzata, sul fronte orientale, dei russi comandati dal generale Brusilov. Intraprese l’offensiva sul fronte italiano che culminò con la vittoria di Folgaria.
L’appuntamento decisivo con il destino fu il 21 novembre del 1916, quando il grande ma ormai stanco cuore dell’imperatore Francesco Giuseppe cessò di battere : “Sono salito al trono in circostanze assai difficili e lo lascio in circostanze ancora più gravi. Non avrei voluto che toccassero a Carlo, ma è l’uomo che ci vuole e saprà farvi fronte” disse il vecchio sovrano poco prima di spirare.
E aveva perfettamente ragione, ma purtroppo le circostanze erano troppo difficili anche per un uomo avveduto, intelligente e preparato come Carlo. Oltre a questo, non ebbe intorno a sé uomini davvero capaci, coraggiosi e devoti. Sapeva benissimo quali erano i due grandi nodi del suo impero: la pace e le riforme, e la prima era il presupposto per le seconde; ma la pace egli la desiderava indipendentemente da altre considerazioni, arrivando a prevenire – e poi a far suo – l’appello di papa Benedetto XV contro “l’inutile strage”.
L’imperatore aveva capito che la soluzione dualistica, nata all’indomani della guerra austro prussiana del 1867 e che faceva della componente ungherese – magiara l’anima egemone dell’impero a fianco di quella tedesca, aveva ormai fatto il suo tempo. La soluzione non era però un “trialismo” mettendo al vertice una terza componente etnica, quella slava, come almeno per un certo periodo aveva pensato Francesco Ferdinando. Il suo sogno, il suo grande progetto, era quello di trasformare l’impero in una confederazione di stati, in cui ciascuna componente etnica avesse pari dignità con le altre e potesse liberamente seguire il suo corso istituzionale. Come ricorda l’imperatrice Zita: “Mi aveva sempre ripetuto che non sarebbe stata cosa grave se l’una o l’altra nazione si fosse proclamata repubblica nel corso del processo evolutivo (…) L’essenziale era, secondo lui, che le nazioni , qualunque fosse stata la forma istituzionale che si fossero date, mantenessero i propri legami con la monarchia e la propria identità entro i confini dello stato unitario.” Un ritorno dunque alla concezione dantesca dell’impero, della monarchia come “unum quod non est pars”, una unità superiore che non distrugge né soffoca il molteplice, ma al contrario ne garantisce uno sviluppo libero e armonioso. Un impero federale - o meglio confederato – che avrebbe sicuramente garantito la pace e gli equilibri europei assai più e meglio del trattato di Versailles, che altro non fece che porre i presupposti per un altro tremendo conflitto che scoppiò appena vent’anni dopo. I tentativi di pace promossi direttamente dal sovrano, a partire dalla famosa “missione di Sisto” purtroppo non approdarono a nulla di concreto e non certo per mancanza di buona volontà da parte di Carlo, che intanto continuava a fare i suoi doveri di soldato: si recava continuamente nelle prime linee per le ispezioni, riceveva rapporti diretti da tutti i comandanti, che conosceva di persona, esponendosi ripetutamente sotto la grandine degli shrapnel nei campi di battaglia.
Formidabile fu l’esempio che dette in ogni campo:
nell’agosto del 1917, al termine dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, il
fotografo di corte vide Carlo piangere davanti ai poveri corpi carbonizzati e
dilaniati, e lo sentì sussurrare: "Nessun uomo può più rispondere di
questo davanti a Dio. Io faccio punto, quanto prima possibile". In Austria
— e dovunque in quasi tutta Europa — c’era penuria di viveri. Carlo lo sapeva,
e ridusse al minimo il tenore di vita nella sua casa, dove lui e la sua
famiglia si nutrivano con razioni di
guerra. Al comando supremo di Baden,
l’imperatore rifiutò il pane bianco facendolo distribuire tra i malati e
i feriti e, davanti ai suoi ufficiali confusi, mangiava tranquillamente pane
nero. Organizzò cucine di guerra, impiegò i cavalli di corte per
l’approvvigionamento del carbone a Vienna, fece di tutto per alleviare più miserie possibile.
I tedeschi invece pensavano di ricorrere ad armi più distruttive. Durante un
pranzo con il grande ammiraglio Alfred von Tirpitz, il quale lo voleva
convincere a bombardare, con aeroplani e sottomarini, le città italiane, Carlo
rifiutò e lasciò la tavola. Fu lui, tra l’altro, a porre il veto al
bombardamento su Venezia. Gli alleati angloamericani nel secondo conflitto
mondiale, anche dopo la tragica vergogna
dell’armistizio dell’otto settembre1943, non avranno certo gli stessi
scrupoli. Era anche l’intelligenza
politica che suggeriva all’imperatore di evitare i bombardamenti. Sapeva che questo
avrebbe accelerato l’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America e a tale
riguardo sconsigliò sino all’ultimo il Kaiser Guglielmo II dallo scatenare la
“guerra totale sottomarina”. Ma in Germania
non gli dettero ascolto.
C’è una foto che, forse più di ogni altra, mostra il carattere e l’indole del sovrano: nel 1917, durante una sua ispezione sul Carso, gli si avvicinano due povere contadine. L’imperatore le accoglie affettuosamente e le ascolta con grande attenzione, mentre i suoi aiutanti di campo guardano ostentatamente da un’altra parte. “Imperatore del popolo”, dunque, nel senso più alto e nobile della parola. [3]
Purtroppo, il corso della storia andò in altra direzione. Carlo, che non rinunciò mai ai suoi diritti e alle sue prerogative sovrane, morì povero ed esule a Madeira, il promo aprile del 1922, ad appena 34 anni.
Beatificato da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2004, Carlo d’Asburgo è oggi non solo un modello di principe cattolico e un santo protettore di cui questa disgraziata Europa ha più che mai bisogno; dovrebbe essere un esempio di dedizione, disinteresse, sacrificio di sé per qualsiasi governante degno di tale nome. Per questo sovrano cavaliere e gentiluomo, per cui la parola data era sacra e che preferì l’esilio e la morte alla possibilità di una guerra civile per ritornare sul trono su cui pure moltissimi lo avrebbero ancora voluto, il potere era prima di tutto servizio per gli altri, per i suoi popoli, per gli ultimi.
La differenza abissale con il presente non ha bisogno di commenti.
[1] Il convegno si è svolto domenica otto giugno presso la chiesa di Magliano (Forlì) organizzato in modo impeccabile sotto tutti i punti di vista dal parroco e dalla comunità parrocchiale. Relatori, oltre a chi scrive, don Arnaldo Morandi, delegato nazionale per l’Italia della Kaiser Karl Gebetsliga.
[2] Si veda ad esempio Vincenzo MERCATANTE, Carlo I d’Austria tra politica e santità, Milano, Gribaudi, 2009, un ottimo “punto della situazione”. Classica la testimonianza di Francois FEJTO, Requiem per un impero defunto, Milano, Mondadori, 1990, uno dei testi migliori sulla fine dell’impero.
[3] L’immagine è stata pubblicata in Gordon BROOK-SHEPERD, La tragedia degli ultimi Asburgo, Milano, Rizzoli, 1974.
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