Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Una grande nazione europea che conterebbe 800 milioni di abitanti, accomunati da una precisa identità (lingua, cultura e storia) e legati da saldi vincoli di solidarietà è oggi, più che mai, un sogno. Un sogno romantico e insieme lontano anni luce dalla realtà. I caratteri fondamentali di una nazione, riassumibili nel senso del Noi, in simboli miti e riti collettivi, in un ordine interno e nella continuità temporale pare non si addicano a questa Europa.
L’Unione Europea non sembra avere una sovranità, né una politica estera, né delle forze armate, né una precisa idea di economia e società. La sua Costituzione, piena di buoni propositi, piuttosto generici per la verità, non considera neppure l’identità greco-romana-cristiana. Identità che il Trattato del 29 ottobre 2004 svaluterebbe e declasserebbe a “eredità culturali, religiose e umanistiche”. La frattura tra l’Eurozone (o Euro area o, a essere sprezzanti, Eurolandia) e l’Impero della sterlina è evidente ma, si spera, prima o poi ricomponibile. E proprio l’Inghilterra, in buona compagnia della Francia, al momento rifiuta di contribuire alla causa unionista con un suo apporto armiero. I maligni dicono sia a causa delle basi americane installate nel territorio europeo.
Ma affascina ancora, il sogno europeo. Quel sogno che affonda le radici nei pensieri di Giuseppe Mazzini, del Conte di Saint-Simon e di altri pensatori ottocenteschi ma ancora (anzi, forse più che mai) attuali. È il Popolo inteso come unità, spiegava Mazzini, a costruire la nazione. Ma il popolo, al singolare, oggi pare un tabù. Non lo si cita (e neppure per una volta…) nemmeno durante il dibattito sulla Costituzione europea. Sono proprio dibattiti come questo - e non il voto negativo di francesi e olandesi, più una conseguenza che una causa - che frenano la costruzione della leggendaria Europa nazionale.
Ma poi, la Costituzione europea è davvero tale? O si scrive Costituzione ma si legge trattato, che ricalca il profondo distacco tra la tecnocrazia (che di europeo ha molto poco) e i reali interessi degli Stati che la compongono?
In economia le Istituzioni europee dettano la loro ricetta agli Stati membri: riduci le spese, taglia i costi, comprimi le uscite. In un sistema che a essere cinici (ma neppure tanto) definiremmo di “sovranità limitata”, gli Stati si affannano a recepire il diktat. Un po’ come facevano quelli dell’Est in virtù del Patto di Varsavia.
Posto che non ci sia nulla di male in questa logica verticistica, stile top down (come direbbero gli Anglosassoni), dove sono i benefici? Di certo non è un beneficio la rincorsa verso il basso che il processo induce: meno posti di lavoro (sì, ancora meno e sempre meno), meno soldi a chi ha già poco, meno ricerca, meno investimenti e meno tutto ciò che è vitale per un Paese. Il tutto su uno sfondo deregolato, e perciò ingiusto e iniquo. Qualcuno ha mai visto una riforma europea che tagli gli sprechi? Macché, s’arrangino gli Stati, che in fretta e furia improvvisano provvedimenti tampone destinati a sciogliersi come neve al sole, sempre più radioso, della crisi. E poi, perché imporre tagli e riduzioni di risorse (in primis umane) eludendo rigorosamente il tema della creazione di nuovi posti di lavoro?
Più giusta ed equa sarebbe invece, per esempio, la riduzione dell’Iva in tutta l’U.E., anche solo per qualche tempo. Aiuterebbe tutti. E forse non lo si fa – verrebbe da pensare – proprio per questo motivo.
La politica estera crea altrettante divisioni. Il principio del “chi pensa per sé pensa per tre” qui non vale, è controproducente, cosa che i singoli Stati sembrano ignorare. Ognuno sceglie la sua politica estera degenerando in atteggiamenti predatori e arruffoni che poco c’entrano con il nobile principio dell’interesse nazionale e ancor meno europeo.
L’inquietante spettacolo libico ne è una chiara dimostrazione. Con metodi che ricordano la “giustizia messicana” un capo di Stato viene linciato e un Paese spogliato della dignità. Gli Stati europei (e non solo quelli, beninteso) si sono gettati nella razzia e hanno fatto a gara a chi arraffa di più. Le Istituzioni sopranazionali, Nato e ONU, hanno - com’è ormai nella loro consuetudine - fatto orecchie da mercante.
In questo ambito, gli States e l’U.E. presentano, nella loro diversità e antitesi politica, alcuni tratti in comune. Entrambi temono vicini di casa indocili e alternativi ai loro rispettivi “modelli di sviluppo”.
Nel Nuovo Mondo i regimi più o meno socialisti e nazionali sfidano, implicitamente ma fieramente, il limitrofo Stato nordamericano.
L’Europa confina invece con un palcoscenico geopolitico quanto mai tumultuoso. Nel Vicino Oriente Iran e Turchia fanno a gara per l’egemonia dell’area e l’imposizione del loro modello, in entrambi i casi alternativo a quello petrodollaresco dell’Arabia Saudita.
La sensazione è quindi quella di essere distanti, distanti anni luce da un’Europa unita e consapevole del suo ruolo. La divisione si staglia però anche all’interno degli Stati membri, come il caso italiano ben illustra. Campanilismi, particolarismi portati all’estremo, partigianerie collaterali all’appartenenza all’una o all’altra casta e non ultimo l’affidamento del Governo del Paese a un team di tecnici. In Italia ci si lamenta da decenni, si parla di scollamento (Fausto Bertinotti lo chiamò “iato”) tra governanti e governati. Verissimo. Ma paradossalmente cerchiamo nei tecnici, esponenti di primissimo piano di gruppi d’interesse (ma non eravamo contrari alle caste?), per giunta non eletti e liberi da ogni responsabilità nei confronti degli italiani, la soluzione di tutti i mali.
E allora si torna al romantico sogno di una grande nazione, con una propria identità e intessuta dal nobile principio della solidarietà. Perché se è vero che questi valori manchino in Europa, è altrettanto vero che l’Italia si ritrovi per certi versi nella stessa, precaria situazione. Il congelamento della sovranità nazionale e la vanificazione di un progetto politico in grado di decidere per il bene della nazione ne sono insieme cause ed effetti.
Ma la soluzione c’è, ed è quella di un progetto politico in grado di interpretare correttamente gli interessi nazionali in ossequio agli interessi dell’Europa (e non dei suoi governanti). Solo così riusciremo a tornare, finalmente e come in un sogno, nazione. Prima in Italia e poi, magari, in Europa.
Inserito da Rudi Vittori il 25/02/2012 19:38:45
Complimenti Ivan, una analisi lucidissima che condivido appieno. L'Europa è nata al servizio degli interessi di alcuni Stati. Non dell'interesse collettivo. Molti vi hanno aderito come si aderisce ad un consorzio commerciale, alla ricerca del beneficio economico a breve termine. Ma finché non creeremo una reale federazione di stati sul modello americano (non dimentichiamoci che gli USA attuali nascono da una guerra civile che opponeva gli stati del sud che volevano la confederazione agli stati del nord che volevano il federalismo e non sappiamo che cosa sarebbe successo se avesse vinto la confederazione) non avremo alcuna possibilità di trarre beneficio dall'Unione Europea. Dobbiamo arrivare ad un governo centrale unico, eletto dal "popolo europeo" alle due camere, una rappresentata in percentuale sugli abitanti e una con un rappresentante unico per ogni singolo stato. Una politica economica unica, una politica estera unica e una politica militare unica. Finché non avremo un unico sistema fiscale uguale per tutti e un'unica politica estera con un ministro che quando visita un paese lo fa a nome dell'Europa Unita e non a nome della Germania, piuttosto che della Francia...l'Euro sarà una palla al piede e non un vantaggio per i singoli stati federali. Ma credo che noi non arriveremo a vedere questo cambiamento. Troppi interessi personali. Ormai è la finanza che comanda il mondo e la politica è al suo servizio.
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