Ritmi illogici e arbitrari di linee...

Un breve appunto e ad uso del tutto dilettevole sull’arte di Julius Evola

Chiuso e aperto conseguono per deduzione dalla duplice classe precedente di superficie e profondità

di Piccolo da Chioggia

Un breve appunto e ad uso del tutto dilettevole sull’arte di Julius Evola

Dal cammino del cinabro, il volume che Julius Evola ha scritto ad orientamento per la sua opera, si ha il conciso riassunto delle classi entro cui disporre le sue composizioni dipinte quando era pittore d’avanguardia. Esse venivano separate in due distinti periodi, il primo, che risentiva ancora dei contenuti futuristi, era stato da lui nominato tendenze dell’idealismo sensoriale, definizione curiosa ed invero gradevolmente ossimorica, il secondo era stato quello detto dell’astrattismo mistico. Il filosofo partiva poi i dipinti, disegni e via di seguito secondo un’altra doppia classe: le composizioni lineari da un lato, quelle cromatiche dall’altro. In pratica quattro stadi principali, quello dell’idealismo sensoriale che comprendeva solo composizioni cromatiche, quello dell’astrattismo mistico inclusivo pure di composizioni lineari a complemento di quelle cromatiche. Esplicita e bella era la descrizione precisa della procedura seguita da Evola per tutte le sue espressioni pittoriche e grafiche, e qui siamo nel caso precipuo dell’astrattismo mistico, data sul quaderno assai suggestivo e a tratti poetico, Arte Astratta, edito nel 1920: ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni e segni (…) che nulla vogliono dire, ma solo testimoniare del grado di massima autarchia interiore, nel senso d’uno scioglimento da ogni riferimento figurativo, raggiunta da colui che pone mano al lapis e ai pennelli. 

Ho trascritto in corsivo la frase a memoria per il fatto di essermi ad essa ispirato ed esercitato da tempo a disegnare e comporre a mia volta le tavole astratte e i quadri che ornano la parete settentrionale della mia stamberga e altre pareti di altre case. 

Procedendo ad esemplificare, le composizioni lineari fino ad ora note del filosofo dell’individuo assoluto sono al momento tre più due: il disegno d’una griglia costellata di elementi ulteriori e sparsi, cerchi, lettere ed altri segni nonché, ma solo per estensione e facente quindi parte del più due la linoleografia, entrambe poste a ornamento del quaderno Arte Astratta; dipoi un disegno armonioso e saturo di arzigogoli a frontispizio del poemetto “La parole obscure du paysage interieur” del 1921, un altro disegno fatto di mezzi cerchi e linee e tratteggi che quasi simulano graficamente una pioggia, pure questo noverato nel più due, eseguito a matita e apparso sulla rivista Roma futurista di quel ruggente tempo d’avanguardia; infine la bellissima composizione lineare del 1919 posta ad ornamento del volumetto di poemi Râaga Blanda stampato negli anni sessanta dall’editore Scheiwiller junior. Per i quadri, va da sé che essi son da noverare tutti quali composizioni cromatiche unitamente a qualche acquarello ed alla copertina di Arte Astratta.

Trovo abbia un qualcosa di dilettevole applicare alle composizioni di Evola, o forse stirarla fino all’inverosimile, a seconda del punto di vista, una ponderosa classificazione ideata dal rinomato storico dell’arte Heinrich Wölfflin, un professore svizzero ben postosi entro il solco tracciato dal magistero del suo connazionale Burkhardt. Il Wölfflin è autore fra le altre cose d’un saggio, datato ai primi anni del novecento, assai interessante che unisce la scultura alla fotografia e il cui titolo è, senza troppi rigiri di termini, esplicito e diretto, Wie man Skulpture aufnehmen soll, da voltare in “come si debba fotografare la scultura”, e che prelude quasi alla creazione d’un’arte al traino d’un'altra. 

Una bella scultura del Canova o una composizione di figure e cavalli come quelle del Thorak, fotografate con toni di luci adatti ed entro un contesto architettonico classico e nudo e ordinato solo all’essere, nell’istante dello scatto fotografico, una scenografia magnifica, creano evidentemente una forma di bellezza ulteriore e a sé, la fotografia d’arte. Sempre il Wölfflin aveva composto un curioso saggio in guisa di dissertazione pel suo titolo di dottore in filosofia nella Monaco del 1886 dal titolo qui non più semplice e diretto, Prolegomena zu einer Psycologie der Architektur, ovvero “prolegomeni ad una psicologia dell’architettura”, di non sempre agevole lettura, a volte ampolloso nell’esplicitare dei pensieri spesso troppo intricati e plausibilmente, ma qui esprimo un’opinione del tutto individuale e limitata al mio gusto, non necessari a chi abbia bene assimilato la semplice e per me insuperata estetica dell’architettura e, in cornice, del paesaggio, quale si trova nelle pagine del capolavoro di Schopenhauer, il “Mondo come Volontà e Rappresentazione”. 

Il partire in classi ulteriori che qui si vuole applicare all’opera di Evola è tratto da un volume capitale del professore svizzero, il quale riassume alcune differenze di percezione che noi possiamo avere ora nel contemplare dipinti e plastiche e architetture del Rinascimento e del periodo ad esso seguente, il Barocco. Avviso che la lettura di questo studio non è da me stata compiuta, deluso come ero dalle difficoltà avute e non commisurate ai risultati nella lettura del saggio architettonico del Wölfflin. L’aver trovato però la sua classificazione espressa in modo rapido e, finalmente, bene intuibile rende ragione del tentativo dilettevole che qui espongo.

Dal confronto di percezione ricevuto nell’ammirare opere rinascimentali e opere barocche si riscontra che tra le prime e le seconde vige come una sottile linea di confine che può precisarsi pure in base allo schema binario che segue e che esplicito in tedesco allegando a lato la mia traduzione italiana. Dove la prima colonna è da riferirsi al Rinascimento e che nelle linee che seguono si applica alle composizioni lineari di Evola, la seconda al Barocco qui però usata per i quadri del filosofo:

 

Linear-Malerisch;  lineare-pittorico 

Flaeche-Tiefe;      superficie-profondità (o senso della superficie-senso di profondità)

Geschlossen-Offen;  chiuso-aperto

Vielheit-Einheit;     molteplicità-unità

Klarheit-Unklarheit und Bewegtheit; chiarezza-oscurità e movimento.

La dualità lineare-pittorico è esattamente nei termini dei due modi del figurare dichiarati da Evola nel “Cammino del Cinabro”: lineare e cromatico. Risulta interessante però cercare di capire anche come un dipinto rinascimentale ed un dipinto barocco rivelino di questa dualità. È forse lo spazio netto, precisamente delimitato, l’hortus conclusus  intuibile nelle prospettive della grande pittura rinascimentale, penso all’annunciazione di Leonardo o alla flagellazione del Cristo di Piero della Francesca, o ai panorami cittadini del Carpaccio a dare ragione di questo. Dopo questi esempi di centuriazione prospettica delle superfici al suolo, effettuata con linee di costruzione ben avvertibili nel quadro, e quindi di delimitazione esatta e architettonica dello spazio ad esse sovrastante, ogni pittura altra diviene “pittorica” pure se la prospettiva è rispettata. 

La linearità diviene persino una sorta di disciplina assoluta dei volti quando si abbiano presenti i disegni ad accompagnamento didattico del trattato “De perspectiva pingendi”, ancora di Piero della Francesca, che costruiscono con linee dettate dal rigore geometrico e con perfezione prospettica le teste e i volti delle figure. Rammento poi quei fantastici trattati del Dürer che attuano una disciplina consimile, sempre prospettica e governata dai canoni della proporzione, per il disegno, tutto a linee costruttive come in un disegno tecnico, di corpo e volto delle figure. Con l’altezza della testa, dal mento all’apice della volta cranica, che sia pari ad un settimo della statura per una figura di slancio normale, penso ad un robusto lanzichenecco, e l’altezza della testa pari ad un ottavo della statura per la figura d’un allampanato di quel tempo. 

Superficie e profondità sono di nuovo subito evidenti nelle composizioni di Evola. I suoi disegni lineari sono partizioni illogiche ed arbitrarie della superficie del foglio. Ciò preso ovviamente con una certa approssimazione dato che vi è un evidente intento armonico alla bellezza del tutto che fa sì che una grata sia in una parte del foglio e non altrove così come avviene per il tal cerchio o tal diagramma o la linea spezzata. In un solo caso, quello della composizione del 1919 messa poi a corredo del volumetto di poemi Râaga Blanda, sembra che ci si trovi ad un notevole effetto di ampiezza e profondità, quasi d’un interminato paesaggio solo adombrato dai segni illogicamente disposti. 

Per i quadri, al contrario, e soprattutto in quelli dell’astrattismo mistico la profondità è data dalle molteplici fughe nel bianco luminoso o nel blu che digrada a celeste che danno, appunto, l’immagine quasi d’un paesaggio che seppur inesistente, come espresso dai numerosi titoli di paesaggio interiore dati da Evola a vari suoi dipinti, si apre ora per uno squarcio ora in uno stretto spiraglio verso degli iperurani lontanissimi. La profondità è poi sempre data in tutti i dipinti del filosofo dalle continue sfumature che un campo di tinta assume nel digradare ad un campo contiguo e fa sì che l’impressione non sia mai quella d’una composizione piatta. In quest’ultimo caso se non vi sia l’apertura verso i lontani ed enigmatici iperurani vi è però la sensazione che i campi di colore diano una percezione simile a quella che darebbero dei sipari scenografici che si appaiano o a lembi si sovrappongono e inducendo una sorta di effetto prospettico. Nelle pitture rinascimentali le superfici centuriate dei pavimenti e dei tappeti danno con l’aere soprastante i termini della scena e questi paiono quasi rigidamente delimitati. L’occhio si concentra sulla rappresentazione figurata e non è portato alla fuga verso il lontano. In architettura le superfici piane e mai corrugate si compongono con grazia agli archi ed alle semplici finestre. Qui rammento la bella facciata dello Spedale degl’Innocenti del Brunelleschi o quella di San Miniato al Monte entrambe fiorentine. La profondità mi appare al contrario quasi l’essenza dell’effetto barocco. 

Le decorazioni ridondanti in architettura creano i continui giuochi di luce ed ombra, non esiste quasi più una superficie nuda e priva di corrugazioni, nelle scenografie si porta all’estremo assoluto la possibilità prospettica e si inventano addirittura gli inganni prospettici. Penso alle gallerie che si restringono gradatamente per dare l’impressione d’esser molto lunghe a percorrersi e poi si rivelano dei corridoi da misurare in pochi passi. A Roma, o sul palcoscenico del Teatro olimpico di Vicenza sono visibili questi trucchi. La pittura con gli effetti prospettici e quelli nuovissimi creati dall’alternarsi di luce e oscurità adombra con ogni mezzo la profondità possibile della scena.      

Chiuso e aperto conseguono per deduzione dalla duplice classe precedente di superficie e profondità. Nelle composizioni lineari di Evola il foglio è ripartito in regioni chiuse. Nei dipinti le sfumature continue rendono labili tutti i confini tra regione e regione, e qui è l’aperto a prevalere. L’hortus conclusus dell’arte rinascimentale, ovvero la precisa scenografia del luogo dove svolgono il loro ufficio le figure della composizione inquadrano questa pittura entro il primo termine della dualità. Le fughe verso il lontano, gli alterni cromatismi di luce ed ombra del barocco pittorico ed architettonico versano, al contrario, nel secondo termine. Tutto è aperto, alla precisione ellenica e fiorentina dell’arte rinascimentale che si palesa come fioritura e raffinamento, nel senso del “nulla di troppo” espresso da tempo nel santuario di Apollo a Delfi, della semplicità dorica per gli Elleni e di quella francescana duecentesca e trecentesca per i Fiorentini, subentra l’ingresso degli agguati estetici le cui cause si possono rinvenire nell’instabilità storica del secolo di contro all’equilibrio precedente ereditato dal medioevo. Si scopre l’America e l’Italia diviene periferia. Fiorisce il barocco a Roma la quale è ormai dei secoli che si è allontanata dalle chiarità laziali del poema di Virgilio ed alberga ora sontuose biblioteche di teologia e di diritto. E il secolo costruisce fastosi monumenti che affastella di decorazioni e statue. La stessa Cupola di San Pietro veglia come un gigante a dismisura sul paesaggio e mostra nel ricco ornato ben diverso spirito dalla Cupola del Brunelleschi che appare come un gioiello entro lo scrigno di meravigliosa grazia del panorama fiorentino.

Molteplicità e unità sono ancora termini d’una dualità deducibile dalle classi fin qui viste e però in ragione d’un articolarsi più sottile e meno apparente. Nelle composizioni lineari di Evola la molteplicità si palesa ad esempio come la percezione d’un disegno d’insieme policentrico. Nella due tavole che accompagnano il quaderno Arte Astratta, la composizione con la rete di linee ortogonali non ha un centro né una fuga ma più centri e fughe, e la linoleografia appare piuttosto come una carta geografica distesa, con forme che si insinuano le une nelle altre, come penisole e insenature d’una frastagliata regione marina, dispiegando una molteplicità continua. Nei quadri la molteplicità cede e subentra una percezione accentratrice. 

Questa è data dalle aperture dei campi sfumati e dalle varie fughe nel bianco o nel celeste le quali tutte preludono a quel senso di estrema arbitrarietà proclamato nel quaderno Arte Astratta. L’arbitrarietà è il segno d’un paesaggio che Evola ha nominato, senza eccedere in effetti nei termini, interiore ma che in alcuni esiti molto ben riusciti, ad esempio il quadro “Cosmos” o quello intitolato “Cesura” si potrebbe definire come paesaggio sidereo per l’impressione di estrema vastità che i due quadri suscitano. Nell’arte rinascimentale la molteplicità è tratto ascrivibile all’hortus conclusus della scenografia prospettica che non essendo mai troppo ardita ma sempre misurata colloca le figure e le architetture come in un coro a molte voci. Non vi appaiono delle vistose prevalenze ma piuttosto un ordinato dialogo fra le parti. Molti dipinti del Beato Angelico o del Carpaccio e addirittura le graziose miniature dell’Evangelo del De Predis hanno le architetture e le figure che seppure collocate entro la prospettiva centrale non sembrano da questa come risucchiate e mantengono un grado di indipendenza che le assimila alla figurazione del tardo medioevo, e qui penso a Giotto, ove ogni elemento della composizione aveva una perfezione a sé e

 solo questa qualità era inscritta entro il tutto senza la necessità d’una conferma data dalla disciplina prospettica. All’acuirsi di questa disciplina figure e architetture vedono affievolirsi il loro relativo grado di indipendenza per esser integrate con vigore entro il quadro del tutto: è la prospettiva barocca con la sua perfezione geometrica, le architetture dei sontuosi corridoi a specchi, le fughe nei giardini immensi, gli arzigogoli di complicati giuochi d’acqua. E la pittura del seicento, con le figure dipinte in forti contrasti di chiaroscuro e la natura che da contigua alle scene ora vi si innesta. Su tutto ciò si distende, ancora in un panorama di suggestioni, l’ombra della Cupola di San Pietro a Roma o quella della Karlskirche di Vienna: nella percezione delle volute sontuosità, della continua fantasia inventiva sembra volersi alludere al senso che tutto ciò è tale solo perché v’è un Ente che tutto domina e ordina e colloca al suo rango.   

Chiarezza di contro a oscurità e moto. La prima si è perfino vaporata ad esclusiva essenza della più bella delle composizioni lineari di Evola, quella del 1919 apparsa su Râaga Blanda. Di poi chiarezza palese nelle altre composizioni lineari. Oscurità e moto riassunte in modo esatto nei quadri del filosofo: i toni oscuri sono quasi sempre prevalenti, vi è spesso una forte aliquota di regioni ordinate a grigio scuro o nero. Il moto rappresentato dalle lingue di fiamma, dai coni in colore metallico che penetrano come in un agguato le composizioni, i triangoli acuti che spezzano i campi di colore, le serpentine e via di seguito. Per l’arte rinascimentale mi basta solo rammentare la nuda facciata del Santo Spirito fiorentino di Brunelleschi dove la chiarezza si è fatta selvaggia e ha arso ogni ombra e ogni decorazione per lasciare solo una linea armoniosa. O in pittura le Madonne di Filippo Lippi e i volti femminili di Botticelli. Qui è chiarità come nel Cavalcanti del verso e fa di chiaritate l’aer tremare ed entrambi i maestri esemplificano come semplicità si unisca a senso del bello. Per l’arte barocca vedo l’oscurità dei dipinti di Nicola Poussin con gli alberi che gettano generosi la loro ombra, e le architetture che, ridondanti di ornati e volute continue, alternano ombre e senso del moto. 

La classificazione del Wölfflin che ho elasticamente stirato nelle considerazioni precedenti, le quali altro non sono che suggestioni datemi da memoria e fantasia, mi appare piuttosto duttile e utile. L’applicazione di essa ai quadri e ai disegni di Evola può certo sembrare arrancata ma, in fondo, essa mi si è confermata lungo le molte prove di composizioni lineari e poi acquarellate con vigore e con alcune tele ritmate appunto da linee e colori illogici ed arbitrari che avevano trovato la loro scaturigine nella mia volontà di disegnare con uno stile tratto da quello proprio al pittore e filosofo dell’individuo autarchico. Se sia riuscito o meno nel mio intento di dare con le linee precedenti anche un utile promemoria sull’arte dei due passati secoli non posso dire. Certo l’esemplare concisione del duplice elenco del professore svizzero ha un vigore effettivo nel richiamare alla memoria molte immagini di opere del Rinascimento e del Barocco fornendo alla memoria medesima dei mezzi per ordinare con senno e quindi rammentare con maggior precisione anche aspetti meno in vista dei capolavori che ammiriamo.  

Poscritto 

Nella biografia del Wölfflin viene rammentato il dono ch’egli aveva di essere un grande maestro. Nelle lezioni che teneva all’ università era stato uno dei primi docenti ad usare con costanza e metodo la proiezione di diapositive delle opere d’arte al pubblico dei suoi studenti per mostrare in vivo gli aspetti del manufatto o del dipinto da descrivere e interpretare. La classificazione da lui introdotta per il raffronto tra Rinascimento e Barocco e qui or ora riassunta trovo sia un qualcosa che travalichi i confini delle definizioni usuali. Per essa credo si possa dire che è una “creazione didattica”. La quale è frutto dell’arte di riassumere in concisione quasi poetica l’essenziale di un lungo studio e trasmetterlo. 

Non è raro imbattersi, nel mondo germanico, in queste graziose creazioni che devono esser di ausilio alla nostra facoltà di rammentare rapidamente. Avevo una volta visto degli schemi classificatori della linguistica germanica antica assai belle anche per l’aspetto grafico, compilati da un insigne germanista svizzero, il professor Sonderegger, e mostratimi con ammirazione da un suo allievo, Franco Müller, che è pure letterato e poeta. E rammento gli acrostici dal suono facile a imprimersi nella memoria il cui ufficio è d’aiutare l’ascoltatore ad aver sempre ben chiara la successione dei capolavori di Richard Wagner:

FeLiRi 

HoTaLo 

TriMeiRingPa 


ovvero die Fee, der Liebestod, il Rienzi, quindi der fliegende Holländer, Tannhäuser, Lohengrin, infine die Trilogie, die Meistersinger von Nürnberg, il Ring, ed il Parsifal.

   

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