La macchina a due ruote

Qualche appunto sull’estetica della motocicletta da corsa anni 30 -Prima Parte-

Le linee della motocicletta rappresentata restano invariate fino al 1938/9 quando, con il termine di un epoca, termina anche l’attività industriale di George Brough...

di Piccolo da Chioggia

Qualche appunto sull’estetica della motocicletta da corsa anni 30  -Prima Parte-

Il costruttore inglese George Brough si fa ritrarre sulla sua Brough 1000 bicilindrica quattro tempi nel 1928 ad Arpajon, in Francia

Gli ingegneri progettisti e gli esperti della motocicletta situano intorno all’anno 1930 il completo assestamento, meccanico ed estetico, del mezzo a due ruote. E si deve concordare con loro perché, in effetti, a partire dagli ultimi modelli dei cataloghi 1928/9, e destinati al mercato dell’ anno successivo, delle case costruttrici inglesi, si osserva una precisione di linee tutte concorrenti all’esatta funzione meccanica. Telaio, forcelle, serbatoi della benzina e dell’olio, l’insieme di sella e sellino sul parafango posteriore sono uniti con un’armonia delle proporzioni che rendono ragione del fascino che la motocicletta esercitava allora e, in forma di passione antiquaria, ancora oggi. Non è necessario in queste linee ricapitolare tutte le differenze riscontrabili anche all’apparenza fra una macchina degli anni 20 e l’autarchica classicità estetica e meccanica della macchina anni 30. Per averne un’immagine riassuntiva si può dire che la motocicletta degli anni 10 è acerba e goffa e mutua ancora troppo delle sue forme dalla bicicletta da cui deriva. La motocicletta degli anni 20 è in una lunga fase di transizione verso un qualcosa che assume, per l’appunto, una propria specificità che diviene effettiva nei modelli del 1928/9. Le più belle motociclette inglesi hanno ormai, per quest’anno, tutto il necessario in fatto di affidabilità meccanica e tuttavia, come scritto a Delfi, “nulla di troppo”, il romano ne quid nimis, per svolgere in forma perfetta ed elegante la loro funzione che va dal viaggio utile alla condotta sportiva per un divertimento coraggioso, fino all’estremo spesso irto di pericolo del record e della competizione. Da qui e per tutti gli anni 30, e dopo la pausa bellica, fino agli anni 70, per la macchina a due ruote si riconosce anche alla semplice apparenza una stretta continuità estetica cui corrisponde, in fondo, continuità nella filosofia tanto del progetto che dell’uso. Volendo prestare queste brevi considerazioni all’ironia tagliente d’un filosofo quando non pure alla sua burla, si può dire che nell’esatta eleganza estetica e meccanica della motocicletta, in special modo inglese, degli anni 30, avviene che nella mente e poi sui fogli da disegno degli ingegneri progettisti, non di rado quasi vicini ad aver enucleato un’arte nuova, la rombante macchina a due ruote si avvicini sempre più ed invincibilmente all’idea che di essa questi ingegneri, quasi sempre pure appassionati piloti, ne hanno ab aeterno.

 Si può certo sorridere a questo punto ma allora il filosofo si deve pure chiedere il motivo dell’ostinata cura e dello studio e delle risorse che cultori di meccanica e fondatori di musei hanno nel coltivare dal restauro fino alla messa in circuito per correre di queste bellissime macchine. Cos’è? Forse una nostalgia per quello che sembravano promettere gli anni 30, elegantissimi e pieni di stile, e che poi si è trasmutato in una tragedia infinita? Forse un nemmeno troppo oscuro intuire che la perfezione meccanica che nelle corse al Tourist Trophy dell’isola di Man, a Monza, a Roma sul circuito del Littorio, a Clady nell’Ulster, a Spa in Belgio, ad Assen in Olanda e poi in Germania, Polonia, Svizzera, ora appariva come arma vulcanica ma leale per i coraggiosi piloti e si è poi mutata nella selvaggia perfezione aeronautica delle battaglie aeree dei primi cinque anni 40? A questo punto conviene al filosofo di indagare, più che sulle splendide rombanti motociclette, sul senso nascosto e latente nell’animo di quelli che appassionati a queste macchine impiegano tempo e risorse con intelligenza e ostinazione nel voler vedere ma invero rivivere un tempo passato. Il rivivere sotto la specie di un automa meccanico che lo Zeitgeist del tempo in cui ha visto la luce colma di segni assai importanti per una storia ancora da scrivere nella sua intera realtà.  Dunque interesse estetico meccanico che sottende il latente tentativo di capire per altra via un’epoca dal fato di tragedia.

 Passando a mirare le motociclette in sé, esauritane per quanto possibile la ragione più profonda che porta oggi a coltivarne restauro e competizioni, possiamo tentare di esplicarne la categoria estetica in quanto opere eseguite con arte. Nella scultura è certamente impossibile annoverarle. La scultura vuole fin da subito un blocco di materia, cera da sagomare, gesso da imprimere, metallo da fondere, legno, pietra onde trarre dal blocco primigenio l’opera che da esso nasce come ab ovo. Nel blocco marmoreo da scolpire l’opera d’arte è addirittura latente in forma intera come una pura idea che si sia estesa al contatto con la materia che la renderà visibile. Di qui, forse, l’ammirazione assoluta resa dal genio ellenico a quest’arte plastica capace di suscitare vita entro il marmo addormentato. La motocicletta è assemblata da troppi elementi dalle lavorazioni e dai materiali più vari per essere assimilabile ad una scultura, pure se questa fosse considerata del tipo polimaterico. A considerarla quale architettura ci avviciniamo in quanto teoria di elementi e materie le più diverse assemblati per far divenire reale un disegno finale ma ci allontaniamo definitivamente nel senso primo: altare, edificio, monumento, riparo? In nessun caso. E quel gioco di peso e rigidità e forza di coesione che è alla base della possente estetica architettonica di Schopenhauer, ben salda sulle basi degli edifici classici ellenici, nella motocicletta è molto meno rintracciabile perché sui suoi elementi agiscono anche i carichi del movimento. Siamo piuttosto quasi più vicini, nell’esito, al senso primo della scultura se immaginiamo di adombrare nella motocicletta un transito di forme, sotto il segno divino e inquietante di Vulcano, d’un focoso destriero, un nuovo Bucefalo lanciato dal suo pilota a velocità vertiginose sulle strade . Molto più adeguato può essere l’assimilare la macchina all’idea di costruzione spaziale, qui mobile, che mutuiamo dalla felice denominazione del costruttivista Alexander Rodchenko, ideata per certe sue strutture polimateriche di forma geometrica irte di tralicci composti in telai che si sviluppano in ardite fughe verso le tre dimensioni . Peraltro proprio il telaio nudo con solo la forcella anteriore montata d’una motocicletta da corsa anni 30 può quasi scambiarsi per una nuova costruzione del Russo.

 Non ci si illuda comunque che la macchina a due ruote possa aver lasciato una qualche traccia nelle arti figurative. A parte i pochi famosi dipinti futuristi, uno dei quali di Depero, nei quali la motocicletta vi appare trasfigurata e appena riconoscibile nella sua costruzione meccanica, non mi sono ancora imbattuto in quadri  che la ritraggono con linee esatte.  È mancato per questa trasposizione sulle due ruote del cavallo un genio quale è stato quello di Walther Gotschke per l’automobile da corsa e le competizioni in circuito degli stessi anni, che sapesse tradurre in una pittura descrittiva, precisa nelle linee meccaniche eppure poetica, il mondo della motocicletta. Ma siamo negli eleganti anni 30 e, come in un istante di assoluta indicibile quiete e armonia prima della tempesta che tutto travolgerà, ogni forma è compenetrata di estetica come raramente si era visto nelle altre epoche, dalla politica alla propaganda, all’industria: bastano le fotografie, le immagini pubblicitarie, i giornali per aprire un panorama inaspettato dove la motocicletta diviene di per sé un elemento d’arte del quale lo storico futuro deve tenere in qualche modo conto se vuole effettivamente percepire in tutto quella che è stata l’atmosfera di una decade europea davvero fatale. Le fotografie che sono qui allegate e la relativa didascalia vogliono aiutare una prima lettura estetica di questa strana macchina.

Il costruttore inglese George Brough si fa ritrarre sulla sua Brough 1000 bicilindrica quattro tempi nel 1928 ad Arpajon, in Francia, dove su di un lungo rettilineo ha portato la sua macchina a 130,6 miglia orarie pari a 210 chilometri l’ora. Fotografia bellissima per il senso di vigore ed eleganza naturali che essa trasmette. Gli anni della gioventù di un secolo, i fatidici anni 20, maturano negli anni dell’estetica più compiuta ed estesa possibile: gli anni 30. Preparata dall’ardita filosofia delle avanguardie degli anni 10, l’arte, complice una politica attenta ovunque all’impatto sulle masse uscite da una guerra distruttiva stremate ma se, non più consapevoli, certo decise a tagliare col passato, si è diffusa in molti strati sociali e soprattutto entro tutte le funzioni sociali.  Gli ingegneri non restano più confinati entro i calcoli ma come gli ufficiali di fanteria della recente guerra escono all’aperto, collaudano le macchine da loro disegnate con una tensione estetica viva, spontanea creata dal clima inteso come Zeitgeist e ben lontana dalla patetica artificiosità del disegnatore degli anni 60 e successivi.

Questa Brough 1000 è una macchina derivata da quelle costruite in piccola serie quasi artigianalmente per un mondo di appassionati facoltosi che vogliono provare il brivido delle oltre 100 miglia orarie (più di 160 all’ora) sulle strade del tempo, spesso non asfaltate. Tolti impianto elettrico e fanale la Brough si trasforma con eleganza tutta inglese in una macchina da corsa, non una gran premio, per gare fra sportivi che non vogliono più affaticare i loro cavalli.

Le linee della motocicletta rappresentata restano invariate fino al 1938/9 quando, con il termine di un epoca, termina anche l’attività industriale di George Brough: la macchina è già negli anni 30, ha la sella raccordata in perfetta continuità col serbatoio e l’aspetto generale estremamente compatto che lascia, alla vista di profilo, piccoli angoli vuoti tracciati con precisione geometrica degli elementi d’intorno: tutto è macchina in questa costruzione spaziale.


 

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