Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Ernesto Galli della Loggia, «Corriere della Sera», 26 luglio 2014
S e è vero che il primo conflitto mondiale segnò la fine del regime notabilare postrisorgimentale e quindi l’ingresso delle masse italiane sulla scena nazionale, cioè il principio di una moderna vita politica, ebbene, allora è impossibile non osservare come, proprio a partire da quel punto, nel nostro Paese tale moderna vita politica abbia subìto una rottura. All’Italia, infatti, non riuscì il passaggio cruciale tra liberalismo e democrazia che il conflitto aveva messo all’ordine del giorno. Nella guerra e nel dopoguerra l’Italia scoprì da un lato quanto fragile fosse l’involucro liberale dei suoi ordinamenti e di tanta parte delle sue classi dirigenti, e dall’altro, insieme, quale concezione primitiva della democrazia avessero tanti che premevano per nuovi equilibri. Il 1919-22 fu una sorta di ultimo atto di quanto era iniziato nell’inverno-primavera del 1915. Comparvero allora quelli che nel cinquantennio successivo, e forse oltre, sarebbero stati alcuni tra i fattori determinanti della scena italiana: una cultura e una pratica di governo dominate di volta in volta dall’indecisione o dal disprezzo per gli istituti parlamentari, il radicalismo intellettuale di parte significativa del ceto dei colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di piccola e media borghesia, il massimalismo largamente diffuso negli strati popolari. Proprio intorno alla Grande Guerra, insomma, si precisò e approfondì la propensione alla «divisività» che ha caratterizzato in modo patologico, e per certi aspetti ancora caratterizza, la storia del nostro Paese. Una «divisività» che, oltre che riferirsi a una dimensione ideologico-politica, tende a presentarsi addirittura in una dimensione antropologico-culturale e perfino morale. Come uno spartiacque tra due nazioni, tra due Italie, una buona e degna, l’altra cattiva e indegna, destinate a farsi in eterno la guerra. La nostra identità novecentesca sembra fatta anche di questa incomponibile volontà contrappositiva. Ma dal primo conflitto mondiale data anche l’inizio di un fenomeno destinato in certo senso a fungere da paradossale contrappeso rispetto alla «divisività». Mi riferisco alla frequente migrazione di personalità e di idee da un’Italia all’altra, da uno schieramento all’altro, dalla destra alla sinistra e viceversa. È qualcosa di sostanzialmente diverso dal vecchio «trasformismo» ottocentesco, in qualche modo rimesso a nuovo da Giolitti. Il carattere variegato del fronte interventista nel 1915 va visto piuttosto come il preannuncio della «grande contaminazione di forze, di ideali, di gruppi» che la guerra produsse già al suo inizio, e poi subito dopo, e che in seguito si sarebbe molte altre volte ripetuto in Italia: per esempio nel 1943, e poi nel 1948, e ancora nel 1968, e da ultimo nel 1993-94. Un segno di un che di profondamente instabile, incerto e quindi potenzialmente e imprevedibilmente fusionale, che caratterizza la moderna scena pubblica italiana e i suoi gruppi dirigenti, costretti dalla storia, si direbbe, a muoversi senza avere il punto di riferimento di alcuna stabile tradizione nazionale. Tutto ciò sottolinea un ultimo aspetto che fa della Prima guerra mondiale un luogo di nascita dell’identità italiana novecentesca. Mi riferisco all’azione e all’immagine dello Stato, al modo in cui vengono percepite, nonché al rapporto che questa percezione crea tra lo Stato stesso e il cittadino. Al pari di tutte le guerre, la Prima guerra mondiale assistette a un enorme ampliamento del ruolo dello Stato. A cominciare dalla produzione industriale, lo Stato cominciò a occuparsi di tutto. Ciò non mancò di avere il suo effetto: prima d’ogni altro quello di sottolineare le capacità della macchina pubblica nel raggiungimento di qualunque fine. Lo statalismo, presente dall’inizio della vicenda unitaria italiana, ne ricevette un impulso fortissimo: lo Stato poteva tutto; e, com’era accaduto durante la guerra, tutto poteva essere fatto dallo Stato. Lo statalismo, che sino ad allora aveva corrisposto agli interessi di gruppi circoscritti, divenne così l’orientamento di intere culture politiche, destinate, con il fascismo e dopo, ad assumere la guida del Paese. Lo sviluppo economico e la modernizzazione hanno certo dovuto molto a questo statalismo. Ancora una volta tocchiamo con mano quanto il nostro presente sia riconducibile alla svolta del primo conflitto mondiale. Ma è pure lecito chiedersi se nel suo complesso questo statalismo abbia rappresentato il migliore dei viatici per il difficile cammino della democrazia italiana. Tanto più che l’investimento sullo Stato si accompagnò ambiguamente alla percezione della debolezza e della fragilità di questo stesso Stato. Il modo in cui l’Italia entrò in guerra — e cioè attraverso un conflitto di piazza che vide il ministero Salandra fare da interlocutore più o meno occulto di una parte della piazza stessa — rappresentò un precedente che non sarebbe stato dimenticato. Mai era capitato, in Italia, di pensare che a una minoranza, sia pure decisa, fosse possibile influire in misura così rilevante sulle decisioni del governo; e che il governo avrebbe addirittura in qualche modo cercato e promosso tale influenza. In tal modo la crescente centralità dello Stato nella vita economica e sociale venne a mischiarsi con l’immagine della sua debolezza sul piano dell’autorevolezza e del consenso. Ha cominciato probabilmente a risultarne, proprio da allora, quel sottile discredito per il comando politico, e dunque quella potenziale delegittimazione dei suoi rappresentanti, che non avrebbero mancato di lasciare una traccia profonda nella successiva storia. Ma, detto tutto questo, noi sentiamo che resta qualcosa da dire a proposito di quell’evento. Qualcosa a cui non è facile dare una forma limpida e ragionata, perché troppo intimamente si lega a emozioni profonde. Che cos’è? È la consapevolezza che fu possibile agli italiani durare per quaranta durissimi mesi di guerra, superare la disperazione di Caporetto, organizzare la resistenza sul Grappa e sul Piave fino alla vittoria, perché fu raggiunto un acquisto prezioso: l’unità intorno alla patria italiana, il sentimento condiviso che il destino di quella patria riguardava tutti. È vero: quell’acquisto andò rapidamente perduto, per le ragioni che in parte ho detto. Tuttavia esso era destinato in qualche modo a sopravvivere: attraverso il verso di una canzone o la motivazione della medaglia di un congiunto, nella scritta ingenua di una delle migliaia di lapidi nelle piazze di tante città e paesi. A sopravvivere e a giungere fino a noi che riusciamo ancora a sentirne l’eco lontana. Questo noi, però, non nascondiamocelo, è il noi della generazione che volge al declino. La domanda che chi scrive non riesce a non porsi è se domani, trascorso il tempo della sua generazione e arrivatane sulla scena una nuova, sarà ancora così
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