Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Non stupisca un evento del genere: in quello strano tempo di guerra meccanica il traffico privato non subì l’arresto completo che in molti immaginano sulla scorta dei racconti familiari. Vi era certo la nota penuria dei carburanti ma si erano anche messe in moto le inesauribili abilità di ingegneri e bravi meccanici a trovare ed applicare praticamente succedanei dell’introvabile benzina così come le massaie con eguale sagacia avevano trovato nella cicoria macinata e tostata e nell’orzo idem trattato i succedanei del prezioso caffè. Accadeva dunque che malgrado il martellamento dei cacciabombardieri angloamericani, pronti a mitragliare dalle loro carlinghe ogni cosa si muovesse lungo le strade e le campagne della penisola, una piccola ma sicura aliquota di traffico automobilistico privato continuasse impunito e impudente. I commercianti portavano col loro autofurgone Balilla il vino alle osterie, i viaggiatori di rappresentanze muovevano colla loro fiammante Fiat 1100 verso la città vicina a mostrare i nuovi campionari di tessuti autarchici, i veterinari si inerpicavano sulle salite collinari con una piccola Fiat 500 a visitare mucche o pecore malate o depresse da non voler più darsi alla gioia del ruminare e brucare sui verdi declivi. I succedanei del carburante cui si è data allusione furono in quel tempo i medesimi per tutta l’Europa, compresa quella neutrale di Svezia e Svizzera: trinciati di legno, oppure carbone di legna, questo rinominato “carbonella”, venivano versati dentro un caldaio montato con viti e serraggi vari in coda all’automobile e accesi come se si trovassero in un focolare casalingo. Una volta avviatasi la combustione si serrava il caldaio con il suo coperchio a tenuta e si riduceva l’aria d’ingresso al focolare creando quella combustione in carenza d’ossigeno che obbliga la legna o la carbonella a rilasciare un gas infiammabile, il noto gas illuminante dei lampioni di metà ottocento, che trasmesso e filtrato in una tortuosa conduttura di tubi laterali o sotto la carrozzeria del veicolo arrivava al carburatore e di lì metteva in moto sia pure con minor vigore di potenza i pistoni del propulsore. Si sono dovute mescolare al nostro racconto pure queste aride descrizioni meccaniche in ragione del fatto che l’accompagnatore che conduce Evola a Vienna in automobile e che appunto è l’autore delle lettere qui pubblicate intraprende il viaggio proprio su di una piccola Fiat 500, la graziosa utilitaria immessa sul mercato nel 1936, trasformata a “gassogeno” ovvero provvista del caldaio posteriore di cui si è detto. Il tono sicuro dell’estensore del preambolo inviatomi assieme alle lettere dell’accompagnatore di Evola mi davano lo spunto per una curiosità tecnica: che fosse possibile un viaggio da Mestre a Vienna sulla vetturetta torinese era evidente, non lo era però l’accorgimento del gassogeno. Come si poteva infatti accomodare il voluminoso caldaio con tutte le tubature annesse e i filtri in sughero e bagno d’acqua e i sacchi di trucioli su di una macchina dalle dimensioni così ridotte? Ma anche qui la formidabile inventiva italiana trovava le soluzioni necessarie, scorrendo infatti le riviste d’epoca e tutta la possibile bibliografia scoprivo che già nel 1939 una ditta specializzata metteva in commercio un modello di gassogeno, lo “Stelvio” costruito proprio per la piccola Fiat e renderla, così, per quanto possibile indipendente dalla servitù del razionamento della benzina che si sarebbe fatto sempre più stretto.
Arriviamo ora al quesito capitale della nostra vicenda. Se, come il lettore avrà già compreso, l’estensore del preambolo non ha voluto in alcun modo ragguagliare sull’identità dell’accompagnatore, in ragione del fatto che plausibilmente lo stesso o chi per lui, all’atto di consegnare le sue lettere di un tempo, abbia fatto ciò colla consegna d’un rigoroso tacerne il nome, e quindi su tal fronte non si può andar oltre, ci si deve domandare piuttosto come questi sia stato proposto ad Evola come compagno d’ avventura e quando, e perché. Dalle poche pagine del preambolo si sono potute trarre le notizie seguenti che ci possono aiutare a delineare un quadro sommario di quanto possa essere avvenuto. Alcuni giorni dopo la visita di Evola a Desenzano, lungo la quale il filosofo aveva avvisato i vecchi compagni della redazione de “La vita italiana” del progettato trasferimento a Vienna, a qualcuno, forse allo stesso Preziosi, deve essere balenata l’idea di non lasciare Evola solo, ma di affidargli come si suole dire nel gergo militare un’”ordinanza”. Questa figura non è da confondersi con l’attendente delle classiche memorie di caserma, soldato o semplice graduato, ma è un sottufficiale o un tenente dotati di qualche capacità ed assegnati come aiuto nel districare impedimenti ad ufficiali addetti al comando o destinati a missioni particolari. L’incarico affidato a Evola aveva un’importanza militare nulla, e nemmeno poteva servire a dar spunto per qualche ultima trovata della propaganda d’un Asse ormai alquanto vacillante, ma è inutile porsi domande da appassionati di etichetta militare e di altre comunque utili minuzie storiche; in guerra quando lo spirito del tempo concede ampia vela ai venti dell’irrazionale, può succedere che ad un ufficiale d’artiglieria congedato da lustri e veterano dell’Altipiano di Asiago quale era Evola, si trovi da parte dei suoi compagni di avventura il modo di assegnargli un’ordinanza. Non fosse altro che per trovare un’occupazione ad un qualcuno di buon senno, non inquadrato nell’esercito o nei reparti armati, e che si sapeva voler offrire il suo modesto aiuto alla causa. Non deve dunque esser stato difficile a Preziosi, forte della fiducia di cui godeva presso l’alleato germanico, o a qualche suo collaboratore, di proporre agli uffici tedeschi di Verona che avevano progettato il trasferimento a Vienna di Evola, e a quest’ultimo, un ordinanza, munita oltretutto di automobile e, come vedremo dalle lettere, non sprovveduta quanto a capacità. E al filosofo ed ai contraenti germanici di accettare di buon grado.
Su chi fosse l’accompagnatore del filosofo non si può minimamente dire. Forse un giorno, quando da parte di qualche storico austriaco si troveranno nuovi documenti sulla tempesta che travolse Vienna culminata nell’occupazione da parte dei Russi, e in mezzo a questi il Caso si diletti a far trovare degli appigli atti a rischiarare la vicenda d’un filosofo intento alla decrittazione e traduzione di manoscritti esoterici, quali schede d’ingresso in riservatissime biblioteche, note di appunti abbandonati ma firmati infra pagine di volumi salvatisi dalle fiamme, registri di albergo con il nome del filosofo e del suo aiuto, tutto diverrà più facile a ricostruire. Per ora si deve rinunciare a dar il nome ad un volto ignoto, che comunque, a ben vedere, per la modesta funzione che doveva svolgere entro il palcoscenico d’una tragedia planetaria si è delineato da sé nelle lettere. Lasciando al lettore delle stesse gli aspetti del carattere e dell’animo, si può dire che l’accompagnatore di Evola era stato scelto con un poco di discernimento, fatto raro nelle situazioni di guerra e soprattutto in Italia, perché sapeva un minimo di tedesco, aveva un certo talento per l’arte, era familiare a buone letture, era cortese e pratico. Entro le linee si può scorgere un’attitudine quasi da cultore delle discipline orientali non disgiunte forse dalla scelta per l’alimentazione vegetariana. Felice coincidenza per una figura che deve svolgere, sia pure da semplice aiuto, una missione a Vienna, questo accompagnatore, di sicuro provetto e prudente pilota di automobile, nutre una passione sconfinata per l’ascolto della grande musica tedesca: annota infatti nelle lettere, tutte indirizzate ad una sua conoscente sulla quale non si hanno ragguagli, con puntualità le musiche che ascolta alla radio tedesca: Mozart e Beethoven. E annota con egual cura gli esecutori e i direttori d’orchestra che mostra di conoscere da tempo. Non perde poi occasione di eseguire qualche schizzo a matita poi ripassata in penna del suo alloggio in Padova o di cose viste e che abbiano attirato la sua curiosità.
Sui tempi e i luoghi: Desenzano, Verona, Padova, Mestre Venezia. La burocrazia ha i suoi tempi e nessuna forza la può schiodare dalla sua lentezza di ruminante. Quella militare fosse pure germanica non fa eccezione. Ora, avendo dato uno sguardo allo scritto del professor Del Ponte e confrontando lo stesso con le lettere disponibili, visto che non è detto che qualcuna non si sia perduta, e tenendo presente il diario di Evola, cerchiamo di tracciare un riassunto dei tempi e dei luoghi degli attori di questa vicenda. Dopo l’occupazione di Roma, Evola, che riceve molto presto la visita a casa sua di agenti del servizio segreto alleato, riesce ad allontanarsi grazie alla presenza di spirito dell’anziana madre uscendo di nascosto dalla porta da dove gli agenti erano entrati e a mettersi in cammino per raggiungere il settentrione d’Italia. Verona è il suo punto d’arrivo dove ha modo di incontrare degli elementi tedeschi che gli prospettano una missione in quel di Vienna. È l’estate 44, forse in fine del mese di giugno. Contemporaneamente, venendo a sapere che i suoi vecchi compagni della redazione de “La vita italiana” sono dislocati con l’Ispettorato ministeriale che fa capo a Preziosi in Desenzano del Garda, Evola si prende la briga di effettuare una visita nella cittadina lacustre. Dalla visita a Desenzano durata qualche giorno che si può ragionevolmente immaginare avvenuta non molto dopo il suo arrivo al Nord, il filosofo ritorna in Verona per badare alle questioni inerenti il viaggio e presumibilmente attendere i documenti necessari. Non sono state cose di pochi giorni, rammentiamo che dal giugno all’agosto le armate alleate passano da Roma a Firenze con la difesa germanica che oramai attende di consolidarsi sulla linea gotica, e la burocrazia militare doveva aver ben altre questioni da dipanare. La sosta del filosofo nella città scaligera dura, secondo quanto ricostruisce Del Ponte, fino a fine estate. In quel di Desenzano ci si attiva quanto prima per trovare un’”ordinanza” disponibile per Evola e si prospetta la cosa a tutte le controparti interessate. Che accettano. L’accompagnatore effettua un viaggio fino a Desenzano da dove si spinge fino a Maderno nei pressi di Salò ove era l’autorimessa del Partito in modo da preparare la vetturetta per il viaggio e rifornirla di un’aliquota bastevole di carburante. L’accompagnatore, per motivi che non sappiamo ma che sono plausibilmente dovuti solo alle circostanze del tutto usuali per una missione che, in fondo, è civile e non ha interesse militare, prende alloggio presso una coppia, fratello e sorella, sulla cui discrezione può contare e la cui semplicità nell’ospitarlo traspare dalle lettere, nella periferia di Padova che volge verso i colli, in riviera Paleocapa. Qui egli attende, quietamente immerso nella scrittura delle lettere, nelle passeggiate, nelle faccende ordinarie della sopravvivenza in tempo di guerra, l’avviso telefonico dell’arrivo di Evola sul luogo dell’appuntamento: la stazione ferroviaria di Mestre. Che avviene appunto dopo la visita di alcuni giorni a Venezia dove incontra Rudatis. È la fine di settembre. La lettera finale inviata dall’accompagnatore di Evola data infatti del 30 settembre notte. Vi è dunque, nella partenza per Vienna, il ritardo di una settimana circa, ben comprensibile viste le circostanze belliche, rispetto al fine estate che Del Ponte aveva ricostruito nel suo fondamentale e purtroppo obliato scritto. Dei poco più che due mesi passati nell’attesa di partire per la missione con il filosofo, queste lettere altro non sono che un documento.
Nel trascrivere le lettere si sono rispettate tutte le particolarità dell’ortografia usata dall’estensore. Di queste particolarità la più interessante è quella delle minuscole pure dopo il punto di sospensione.
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