Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
ul tema dei rapporti tra la cultura islamica e quella di derivazione cristiana non si riflette e non si discute mai abbastanza. Questo avviene soprattutto quando le emergenze della cronaca, spesso sanguinosa, accendono l’attenzione dei media; purtroppo, è più raro che si sviluppi un approfondito dibattito pubblico sulle questioni fondo.
Di recente, le nuove tragedie dell’immigrazione e i successi e le nefandezze dell’ISIS hanno riportato all’ordine del giorno i problemi dell’identità collettiva e dei rapporti tra religioni e culture. Al riguardo, di particolare interesse ci sono sembrati gli interventi di Massimo Fini e di Ernesto Galli della Loggia. L’editoriale di quest’ultimo sul Corriere della Sera di pochi giorni fa (“Noi in fuga dalla realtà”) è, a mio avviso, da sottoscrivere parola per parola: si tratta di un’impietosa analisi dei tabù che ci sono stati imposti in materia di guerra, religione e civiltà e che sono alla base degli atteggiamenti ondivaghi di Stati Uniti ed Unione Europea.
Quanto a Massimo Fini, abbiamo appreso che sta dalla parte dell’ISIS. Così, almeno, viene riportato fra virgolette in una intervista rilasciata al Tempo: ”Se devo scegliere in questa guerra degli orrori, scelgo quelli dell’ISIS”. E poi: “Colpisce la ferocia dell’ISIS, ma non è più nobile uccidere sparando missili. L’unica differenza è che nel secondo caso non si vede la strage, nel primo, invece, la testa mozzata fa orrore.”
Ora, Fini ci ha abituato alle sue lucide prese di posizione “fuori dal coro”, che lo hanno portato a diventare, negli anni, “maestro del pensiero” ascoltato a destra – s’intende, la destra che non sorride al liberalismo – e non sgradito a sinistra; un pensiero, il suo, che non a caso trova ospitalità sul Fatto Quotidiano, dimora di tutti gli intransigenti e i seguaci del “bastian contrario”. Spesso io stesso ho apprezzato le argomentazioni di Fini, specialmente quando ha scritto di denaro e finanza, e anche nei saggi in cui ha trattato di guerra e di pensiero unico.
Stavolta però, e non solo sull’onda emotiva della decapitazione di James Foley, proprio non mi sento di sottoscrivere i suoi assunti, peraltro condivisi invece su queste colonne, se non ho male interpretato, da Marika Guerrini. Il fatto è che Fini ripropone la questione dello scontro – e del confronto - di civiltà e, sia pure nei limiti imposti a entrambi dalla sintesi giornalistica, non ci si può sottrarre ad una replica polemica.
Fini prende partito, come spesso gli accade, in negativo e, pur di attaccare l’odiosa civiltà “USA”, con tutti i suoi annessi militari, spionistici e di costume, non esita a sposare, ora, non già la causa dell’Islam, bensì quella dei più feroci guerriglieri oggi attivi sul pianeta. Sì, guerriglieri: in questo, sono d’accordo con Fini, perché quando si è in grado di assediare città e di muovere colonne corazzate, vuol dire che si è superata la fase del partito armato clandestino, del terrorismo che morde e fugge.
Il fatto è che, pur con tutte le contaminazioni, i prestiti, gli scambi, le influenze che possiamo annoverare nella storia d’Europa e d’Italia in particolare, l’Islam – che pure è tutt’altro che un monolite, essendo rappresentato da differenti obbedienze e da ancor più numerose interpretazioni, anche in funzione localistica – è sempre stato l’antagonista principale della nostra civiltà cristiana, e continua ad esserlo anche in questi nostri tempi di secolarizzazione.
Fini rivendica, ad esempio, la legittimità della posizione della donna nella Sharia, respingendo l’idea della omologazione ai canoni occidentali. La questione si complica con l’invasione – pacifica, per ora – di masse di credenti musulmani nel territorio europeo e con la loro immissione (si è visto quanto fallace, anche dopo generazioni) nel contesto di leggi e usanze difficilmente compatibili con quelle islamiche.
D’altra parte, la tutela delle specificità culturali e la difesa delle minoranze si sta dimostrando priva di qualsivoglia reciprocità in tutti i paesi musulmani, quale che sia l’obbedienza prevalente, dalla Nigeria all’Irak, dal Pakistan all’Arabia Saudita (quindi, non soltanto dove prevalgono gli integralismi di varia natura); il che pone innanzitutto un problema di legittima difesa armata, che sembra essere stato riconosciuto di recente perfino da papa Francesco. “I vostri principi democratici e liberali qui non valgono nulla”, ha dichiarato il vescovo di Mosul all’indomani della sanguinosa espulsione dei cristiani: ecco un bell’esempio di negazione sul campo del “pensiero unico”!
Il fatto è che il tanto invocato dialogo interreligioso, che sta alla base – ben più degli interessi delle Cancellerie e delle loro emanazioni spionistiche o dei loro danti causa finanziari – di tutte le questioni politiche aperte non solo sullo scacchiere mediterraneo, produce effetti unicamente quando i due interlocutori sono certi e saldi nelle rispettive identità. E’ quanto avveniva all’epoca delle Crociate, ma anche nei secoli seguenti, quando le guide spirituali e intellettuali dei due “campi” – quello cristiano e quello musulmano – intrattenevano dialoghi fecondi, anche in costanza di guerre senza quartiere.
Oggi una chiesa che troppe volte si mostra debole, nella sua male intesa versione irenistica, unitamente ad un ceto intellettuale inebetito da secoli di principi liberali e democratici male applicati o indispettito – è il caso di Fini? – da certi atteggiamenti servili, rinunciatari o miopemente egoisti delle classi dirigenti di riferimento, minano alle basi l’orgoglio dell’appartenenza ad una civiltà millenaria come quella cristiana. Perché un aspetto dobbiamo pur sottolinearlo, nella polemica – tutt’altro che personalistica con Fini: la distinzione fra Europa e America è da valorizzare prima di tutto in termini di civiltà, e poi sotto il profilo strettamente politico e strategico. L’orgoglio del diritto romano, dell’ecumene medievale, del Rinascimento, del Romanticismo non può e non deve essere gettato alle ortiche nel nome di quell’antiamericanismo che Adriano Romualdi, parafrasando Lenin, definì “la malattia infantile dei movimenti nazional-rivoluzionari”.
Non va poi dimenticato che il luminoso rispetto della diversità troppo spesso conduce inavvertitamente nel buio del relativismo, dove tutti i gatti sono grigi e tutte le religioni e le culture si equivalgono: parlando di donne, Fini se la sente di giustificare l’infibulazione (propria di certo islam africano) o la lapidazione delle adultere (contemplata dalla Sharia)? Non sarà che, sul tema, il tanto deprecato “occidente cristiano” ha il dovere di svolgere una funzione pedagogica?
La discussione sarebbe ben più lunga e articolata e dovrebbe, ad esempio, vertere anche sul ruolo della Tecnica nei rispettivi campi (anche in quello di Agramante): il cammino della civiltà di derivazione cristiana è stato orientato, in questi ultimi secoli, proprio dall’affinamento e dall’invadenza della Tecnica, da un lato, dalla massiva affermazione dei “diritti civili”, dall’altro, e come sempre, il fiume ha portato con sé e mescolato detriti ed alimenti preziosi per la vita di tutti.
L’Islam è apparso fermo all’epoca d’oro di Avicenna e Averroè, di Rumi e della musica Sufi, salvo ingurgitare senza assimilarli, negli ultimi tempi, spezzoni di tecnologia e di pseudodemocrazia. Sta anche in questo la differenza fra i missili e il coltello, tra chi ritiene di possedere la Verità e chi ha perfino smesso di cercarla.
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