Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
bituato a comunicare (e forse anche a ragionare) “twittando”, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato l’ennesima idea-spot sul “mercato del lavoro”, rivendicando il modello tedesco come un modello da imitare. Messa così l’affermazione non ha un grande senso. Soprattutto se – come appare – non viene sostenuta da doverosi approfondimenti e necessarie contestualizzazioni. Ridurre infatti il Jobwunder (miracolo occupazionale) tedesco alla sola “flessibilità” significa dare una lettura molto parziale degli indubbi risultati, ottenuti dalla Germania sul difficile campo della lotta alla disoccupazione, passata, in dieci anni, dal 10,5% al 5,3%.
Fu il governo socialdemocratico Schröder, nel 2003, a mettere in cantiere, con l'Agenda 2010, un programma di misure finalizzate ad aumentare la competitività del sistema-paese. Tra queste una serie di provvedimenti dedicati al mercato del lavoro, approvati in quattro fasi (tra il 2003 e il 2005) e ideati da Peter Hartz, direttore del personale ed ex-membro del consiglio di amministrazione della Volkswagen, oltre che esperto di relazioni industriali.
Il piano Schröder-Hartz era ( ed è ancora, visto che Angela Merkel l’ha conservato) un mix tra flessibilità, servizi all’impiego, ammortizzatori sociali, tassazione e regole per l’occupazione. Vediamoli, in sintesi.
Alla base ci sono i cosiddetti “mini-job”, i nuovi contratti a basso salario ed ad orario ridotto , che prevedono una paga di 450 euro al mese e sono soggetti a tasse e contributi modestissimi, quasi nulli. Secondo le stime, più di sette milioni di tedeschi oggi svolgono un mini job. Per due milioni di persone è un secondo lavoro, mentre per altri cinque milioni è l'unica fonte di reddito. L'obiettivo che ha portato alla nascita di questi contratti era di far entrare nel mondo del lavoro regolare molte fasce di popolazione prima escluse (per esempio gli studenti o gli immigrati).
Secondo elemento del modello tedesco sono gli uffici di collocamento unificati nell'Agenzia Federale del Lavoro, che gestiscono direttamente i sussidi di disoccupazione. Le aziende che inviano un preavviso di licenziamento al dipendente, con qualche mese in anticipo, devono darne immediata notizia alla stessa agenzia, in modo che il lavoratore inizi subito un percorso di reinserimento professionale, ancor prima di diventare disoccupato.
In questo ambito è stato posto un limite alla durata dei sussidi di disoccupazione ordinaria, che non vengono erogati per più di dodici mesi (diciotto mesi per i lavoratori anziani over 55). È stato inoltre reso più severo il criterio per l'erogazione dell'indennità (che di solito arriva sino al 67% dell'ultimo stipendio). Chi rifiuta un'offerta di lavoro che proviene dall'ufficio di collocamento perde il diritto all'assistenza statale.
Il sussidio sociale, già presente nel sistema del welfare tedesco, è stato ristretto escludendo dall'erogazione chi possiede dei risparmi personali superiori a una certa soglia (fissata inizialmente a 13mila euro circa) mentre è stato stabilito un tetto massimo (attorno a 330-350 euro al mese) per l'importo assegno.
Per abbassare il costo del lavoro, è stato messa in cantiere una riduzione di oltre due punti della quota di contributi sui salari destinati al sistema sanitario nazionale. Il taglio è stato finanziato con una riduzione delle prestazioni mediche gratuite, imponendo ai pazienti un sistema di compartecipazione alle spese per le visite e per la prescrizione delle cure. Inoltre, sono state escluse dai benefit pubblici alcune prestazioni mediche non urgenti, ma costose come alcuni tipi di cure odontoiatriche. La manovra fiscale ha portato a una riduzione dal 48,5 al 42% dell'aliquota fiscale sui redditi più elevati e dal 19,9 al 15% dell'aliquota sulle retribuzioni più basse. Il programma è stato finanziato con un piano di privatizzazioni e di tagli ai sussidi statali.
Questo insieme di interventi va però collocato all’interno di un sistema sociale che garantisce un reddito di cittadinanza (con contributi per la casa, la famiglia e i figli), un sistema formativo professionale che favorisce il collegamento scuola-lavoro, ed un sistema contrattuale che poggia sulla cogestione.
Mentre in Italia la cogestione (prevista dall’art. 46 della Costituzione, tuttora inapplicato) appare ancora un tabù per la maggioranza delle forze sindacali, imprenditoriali e politiche, ai più sembrando un sogno irrealizzabile o un’idea eccentrica, in Germania è un esempio concreto ed applicato, con ottimi risultati.
Come ha notato Enrico Grazzini (nel suo recente Manifesto per la democrazia economica, Castelvecchi) eleggere i rappresentanti dei lavoratori nel board delle aziende significa non solo dare loro un potere reale, in grado di influire sulle strategie e sulla vita dell’azienda. La Mitbestimmung (codecisione) migliora la competitività delle aziende e quindi il benessere dei lavoratori, responsabilizza gli stessi lavoratori e risalda i rapporti all’interno delle aziende, “raffredda” la conflittualità e fa emergere soluzioni alternative per salvaguardare l’occupazione, favorisce la trasparenza informativa e contrasta la corruzione.
E’ avendo ben chiaro questo insieme organico d’interventi normativi e di strutturate relazioni sociali che si può parlare di “modello tedesco”, evitando perciò le facili semplificazioni “alla Renzi”. Particolarmente su un tema sensibile , qual è quello dei rapporti tra governo e parti sociali, che non può essere affrontato con qualche battuta ad effetto. Si cerchi di essere seri e concreti. “Anche perché – come ha notato, nel suo libro, Grazzini – né la stanca concertazione tra i vertici del sindacato, la confindustria e il governo, né la conflittualità e gli scioperi a oltranza possono avere successo quando, come accade attualmente, la crisi allontana la possibilità di compromessi al vertice, e quando le imprese decidono di disinvestire, o di chiudere, o di delocalizzare all’estero (vedi il clamoroso ma non isolato caso della Fiat)”.
Se si deve parlare di “modello tedesco” lo si faccia perciò con cognizione di causa ed autentica volontà d’intervento. La crisi economica e sociale ha una tale complessità da non permettere facili semplificazioni. Anche quando si tratta di copiare un modello vincente, qual è quello tedesco, twittare non basta.
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