Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Il Passo dell'Oppio
Sul tavolo della stamberga è aperto un antiquato vocabolario. È solo ad un certo punto, quando scorrendo distrattamente le pagine incontro, al fondo, l’elenco delle città e delle nazioni coll’aggettivo sostantivo corretto per indicarne gli abitanti, che mi accorgo che il povero volumetto è anteriore al 1859. La palladiana Padova è la città d’una antica Università nel Regno Lombardo Veneto, Modena è la capitale dell’omonimo Ducato. Le pagine consumate dall’uso, gli strappi, le varie ed imprecise rilegature, fatte plausibilmente in casa dai possessori, mi impediscono di trovare la data d’impressione ed il luogo. Incuriosito comincio a cercare quelle parole che mi possano aiutare a collocare nel tempo l’opera. “Ferrovia” non appare. Anteriore addirittura alla decade 1830/40? “Telegrafo”: la parola fa capolino e così è esplicata: “macchina collocata in luogo elevato, per mezzo della quale fansi certi segnali, che vengono ripetuti da altre simili macchine collocate a certa distanza le une dalle altre, e si trasmettono così prestamente nuove, ordini a coloro, che sono in grandissima lontananza; ora si inventarono telegrafi elettro-magnetici”.
Osservatorio di Gottinga
Dunque volume posteriore al 1835, data del telegrafo, appunto elettromagnetico, costruito per trasmettere i dati astronomici dall’osservatorio di Gottinga alla casa di Gauss. Uno dei primissimi al mondo e la cui nuova arrivò dovunque in Europa. Vale però di avere maggiore precisione e cerco locomotiva che non trovo ed è sostituito da un “locomotivo”: “atto a muover di luogo, proprio di macchine”. Qualche riga oltre dà un bel “locomotrice”: “aggiunto alla potenza di trasferirsi da un luogo all’altro: dicesi ora delle macchine moventi sulle strade ferrate e ne’ battelli a vapore”. Per curiosità vado a “strada” e con le locuzioni “strada maestra” o “postale” trovo un bello “strada ferrata” così esplicato: “meglio che strada di ferro, quelle formate da due rotaje su cui scorrono veicoli tratti da bestie o più comunemente da macchine a vapore”. Colpisce l’ortografia di “rotaja” con la “j” e infatti si trova: “segno che lascia la ruota scorrente”.
Appena oltre: “rotaje di strade ferrate, diconsi ora quelle su cui scorrono le macchine traenti carri e carrozze sulle strade ferrate”. Siamo del tutto plausibilmente avanti negli anni 40, 1846 forse, quando le macchine a vapore sono ormai universalmente note, hanno soppiantato quasi del tutto sulle strade ferrate la trazione animale ma si ammantano ancora d’un termine, locomotrice, da filosofia naturale e che incute l’idea d’un ente vulcanico ed inquieto, in luogo del ben più individuato e dominabile locomotiva. Per gli Stati dell’Italia preunitaria, questa espressione geografica come vuole il principe di Metternich, può essere una curiosa spigolatura il ricordare un fatto sulla trazione a vapore nelle contrade venete: il 12 dicembre 1842 con un viaggio inaugurale di ufficiali dell’Asburgo e autorità austrovenete prendeva l’avvio l’esercizio quotidiano della strada ferrata fra Padova e Mestre. Il terzo in Italia dopo le tratte fra Napoli e Portici e fra Monza e Milano.
Il piccolo vocabolario, fitto di pagine ingiallite, reca una scritta sul retro della copertina impressa da un timbro: è il nome del possessore con sottoscritta una località, Gavinana Pistoiese.
Panorama di Gavinana
Il paese sorge su di una collina, rivolto a mezzogiorno e ad occidente dove, in fondo alla valle, confluiti i rii che scendono dalle alture circostanti nel fiumiciattolo della Lima, si elevano alla vista i culmini dell’Alpe Apuana. Gavinana che fu antico municipio nei secoli e Pistoiese per la retta e benevola amministrazione Granducale è, per l’archeologia e soprattutto per l’etnografia, apuana purissima come la vicina località di Pian degli Ontani, situata a monte nel corso tortuoso della Lima che scende dal Passo dell’Abetone, dove due piramidi neoclassiche segnano il termine del Dominio dell’Asburgo di Lorena e avvertono che si entra nel Ducato degli Austria Este.
La Lima
Di Pian degli Ontani conoscono ormai solo i cultori di storia militare e i poeti. Sui rilievi del piccolo altipiano i granatieri di Albert Kesselring con aliquote di fanti di marina del San Marco repubblicano costrinsero gli americani e i loro alleati ad un lungo ed estenuante inverno di guerra di posizione, fatto di rapidi colpi di mano, scontri di pattuglie in terra di nessuno e duelli d’artiglierie. Un capolavoro di difesa col quale il feldmaresciallo bavarese di antenati austriaci onorava in dottrina militare un suo predecessore, nato sulle montagne del piccolo Ducato Modenese ed entrato nell’armata dell’Asburgo, Raimondo di Montecuccoli, l’elegante prosatore di quello che diverrà il manuale da campo dell’ufficiale austriaco: gli “Aforismi sull’arte bellica”. Se i segni delle granate sono stati erosi dal vento e dal quieto brucare delle greggi, il poeta che ha a cuore il suono della favella apuana legge ancora e rammenta i canti della Beatrice di Pian degli Ontani, la poetessa pastora che alternò le cure della casa e dei numerosi figli ai versi scritti in una lingua cristallina su carta di quaderno.
Il volumetto, tratto da una polverosa mensola nella casa montana, e aperto quasi sempre sul tavolo non ha alcuna utilità immediata. Parole desuete è raro usarle o trovarne scritte nelle pagine della letteratura comune. Ma risale presto la china, da quell’obliato ausilio che era, quando si sfogli un libro di etimologie o di vocaboli comparati: “tepelis” nell’antico umbro è il “debbio”: “abbruciamento di legni e sterpi per ingrassare il campo, ovvero il diboscare”. Radice medesima di tepore. Tecnica agricola rudimentale ma efficace e usata per i boschi di castagni, sulle colline di Gavinana Pistoiese ancora negli anni intorno al 1845. Un antico avviso del 1847 ristampato su di un manuale di storia locale ricorda che nell’estate di quell’anno si celebrò la festa delle montagne, ripulite e trasformate a pascolo coll’uso del “debbio”.
Dalla strada che conduce dal Pistoiese Passo dell’Oppio a Gavinana si vedono come prossime le ripide pareti dei monti che scendono alla Lima la cui valle, all’occhio, è chiusa verso il mare dalla linea delle Alpi marmifere. Se si prosegue a occidente, sulla via di Lucca, deve trovarsi tuttora da una qualche parte il cippo che ricordi che colà, lungo la stretta valle tortuosa, prima dei Bagni termali doveva essere il termine del Granducato dell’Asburgo Lorena e si entrava nel minuscolo Ducato apuano. Ristretto entro poche valli ma non tanto da rinunciare alla sua strada ferrata, e qui abbiamo un’altra curiosa spigolatura tecnica, inaugurata nel 1843, ben quattro anni prima di quel 1847 della festa delle montagne.
La città entro le mura costruiva appena fuori di esse, su disegno dell’architetto Pardini, una stazione neoclassica dalla quale uscivano le “rotaje” che conducevano la “locomotrice” a vapore e il suo convoglio fino alle terme di San Giuliano, dove, si attese qualche tempo sempre del corrente anno a che fosse ultimata la tratta periferica che uscendo da Pisa unisse l’augusta città universitaria e ghibellina alla città musicale ed apuana. Era la prima strada ferrata in Europa ad unire due Stati con il transito d’una stazione di dogana. Che non durava comunque molto: l’anno della festa delle montagne, il 1847, il Ducato apuano per trattato cedeva la sua sovranità al Granducato degli Asburgo fiorentini e si cancellava dalla variopinta carta geografica italiana del Metternich.
È la lingua cristallina degli Apuani a vibrare sui monti d’intorno e questo, oltre a causarne l’innesto dei suoni in musica, forza la percezione attenta delle cose e la conseguente descrizione il più possibile aderente ed esatta delle stesse. È come se questa lingua di Beatrice, con i suoi accostamenti mai disarmonici di suoni, e le sue radici latine e apuane tese ad una precisione Linneiana nel circoscrivere immagine o senso di una cosa, avesse mutato in parole, costruzione grammatica e stile, la cosa stessa vista dagli occhi delle aquile che ancora in epoca ducale e granducale non erano rare e roteavano in volteggio, cullandosi sulle correnti aeree ascendenti sopra i torvi culmini dell’Appennino e delle Alpi marmifere.
È già dalle terme di San Giuliano che si respira un’aria marina e palustre allo stesso tempo. Se volgendo lo sguardo ad occidente si può, nelle ore pomeridiane, vedere l’ampia distesa delle acque infuocata dal sole che vi si specchia, seguendo la linea delle colline che digradano nella piana dell’Arno e del Serchio si intravedono ben distinte nel verde dei campi e delle pinete spiccare al di sopra le pietre bianche di Pisa: il complesso della Cattedrale e la Torre pendente si stagliano come candidi muti giganti lontani. Ad essi la locomotrice del 1843 scorreva sulle “rotaje” della prima strada ferrata ducale con le sue ruote metalliche a raggi che nella velocità divenivano dei dischi color ruggine sui quali martellino continue le bielle della trasmissione.
Terme di San Giuliano
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