Editoriale

Il sindacalismo italiano è morto, ma non è un bene

In un momento come l’attuale, a meno che non si voglia ipotizzare l’azzeramento delle forme di rappresentanza sociale, con gravissimi rischi per la tenuta degli assetti economici e politici del Sistema Paese, ai sindacati va chiesto di fare la loro parte

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

opo essere stato, per anni, ai vertici della popolarità e del gradimento dell’opinione pubblica, il sindacalismo italiano sembra essere finito in una sorta di limbo. Molto, in questa direzione,  ha fatto Matteo Renzi, che, nei primi mesi del suo governo, ha rottamato la concertazione tra sindacati, imprenditori e governo, su cui, per decenni, si era fondata la politica delle relazioni sociali nel nostro Paese; ha avviato le procedure per la cancellazione del CNEL, l’unico, organico tentativo, costituzionalmente garantito, per dare un ruolo istituzionale alle categorie produttive; ha dimezzato i permessi ed i distacchi sindacali nelle pubbliche amministrazioni.

Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se questi interventi fossero stati attuati da un governo di segno opposto. Scioperi generali … accuse di autoritarismo … manifestazioni di piazza … Niente di tutto questo, malgrado l’ attuale Presidente del Consiglio non abbia ricevuto alcun mandato popolare (e quindi programmatico) attraverso regolari elezioni e sia espressione di una maggioranza disorganica, frutto di una scissione politica (quella dell’ Ncd).

Per carità, Renzi ha dimostrato di sapere fare bene il suo mestiere di rottamatore. Il problema sono i sindacati che hanno appena balbettato. Hanno ovviamente protestato, a parole. Ma niente di più. Dimostrando, in questo modo, di essere realmente quel grumo di conservatorismo sociale da più parti denunciato,  espressione burocratica più che forza organizzata, capace di rappresentare realmente gli interessi dei lavoratori e, più in generale, quelli nazionali.

In un momento come l’attuale, a meno che non si voglia  ipotizzare l’azzeramento delle forme di rappresentanza sociale, con gravissimi rischi per la tenuta degli assetti economici e politici del Sistema Paese, ai sindacati va chiesto di fare la loro parte.

In che direzione ? Intanto in  direzione di un’essenziale ricostruzione del rapporto fiduciario con i lavoratori, attraverso l’adozione di modelli partecipativi e di verifica del consenso più trasparenti, quali referendum interni ai luoghi di lavoro,  forme di  cogestione, organismi bilaterali, finalizzati alla costruzione di sistemi premiali. E’ questione di metodo e di merito. E qui pensiamo ad un mondo sindacale più “aperto”, capace di chiedere, per primo,  rigore e quindi  rispettoso e garante  del patto tra produttori (lavoratori e datori di lavoro, privato e pubblico). 

Più  attento nei confronti di chi lavora e, nel contempo, meno accondiscendente verso chi  furbescamente o grazie a certe inefficienze di sistema,  non fa il proprio dovere. Pensiamo ad un sindacato che sappia  farsi carico delle inefficienze, presenti sui luoghi di lavoro,  che le denunci e che si impegni per superarle, piuttosto che mascherarle dietro il paravento lacero di un’impropria “giustizia sociale”, che cozza con la realtà di milioni di disoccupati.   Insomma un mondo sindacale che esca finalmente dal  letargo, in cui si è rincantucciato per difendere le proprie rendite di posizione e dimostri di essere in grado di affrontare non solo la crisi economica, quanto soprattutto la propria crisi. Pena un inarrestabile tramonto.

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