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Fra gli alberi lungo il fiume

Qualche ora in quel di Parigi

L’impressione di Céline era però nata osservando le belle creature alianti autour du pont, ed il loro soggiorno era quello d’hiver.

di Piccolo da Chioggia

Qualche ora in quel di Parigi

Un dipinto di Romano Mussolini

Primi di settembre. Arrivavo a Parigi per la strada diretta dal porto di Le Havre dopo aver percorso in automobile le vie della costa normanna. Ho il raro primato di essere stato nella capitale di Francia per sole quattro ore e di essermi allontanato da essa quasi senza rimpianto in direzione dell’Est. Dalle banlieues attorno Meudon fino alla via che cercavo, nel procedere della macchina ho intravisto ad un incrocio, di lontano, la gigantesca struttura metallica dell’ingegner Eiffel e, più distintamente, ho ammirato i lungo Senna, ora spogli, ora all’ombra di alberi. Notavo, sempre dal di dentro della mobile gabbia meccanica, come la Senna non sia poi così larga e maestosa; su di essa navigano dei vaporetti ma la sua lenta corrente non ha la portata d’acque che vedo alla foce dell’Adige o del Brenta.

Fra gli alberi lungo il fiume, tinti dalle prime foglie ingiallite, scorgo qua e là dei graziosi lari che, incuranti del traffico intenso che a loro si svolge intorno, continuano i loro voli. Posso riscrivere su di essi, con lieve adattamento agli istanti nei quali li osservavo e al ricordo che ora muove queste linee, il breve agguato lirico che Céline intermette nella sua prefazione ad un volumetto di storie locali dedicato alla piccola città di Bézons, nei pressi di Parigi, 

et tout autour des arbres 

les mouettes gracieuses en leur séjour de ville, 

petits flocons palpitants d’infini,

baisers du large à nos malheurs, 

miettes au vent qui tout emporte. 


L’impressione di Céline era però nata osservando le belle creature alianti autour du pont, ed il loro soggiorno era quello d’hiver. Immagine più poetica nella levità d’un transito sopra le acque e nell’aura di bianchezza che l’inverno conferisce ad ogni cosa.


Il cielo, nel dì che si è inoltrato nelle ore pomeridiane, è leggermente nuvoloso, grigio e celeste, a tratti si vede in qualche taglio fra le masse di nubi il sole ed il celeste carico e trasparente dell’estate. Trovare la via cercata non è stato difficile oltremodo pur disponendo della sola carta geografica della capitale. In un arrondissement del centro, dopo un boulevard alberato leggermente in salita e arginato ai lati dai soliti palazzi con i tetti caratteristici di Parigi, metallici e verdi scuri o blu, sui quali si aprono come degli oblò di nave le finestre delle mansarde arrivo dinanzi la casa nella quale ero atteso. Di fuori, il fabbricato sfoggia, pur se moderno e non certo del tempo di Haussmann, una consueta grandeur leggermente pretenziosa forse, con il portone d’ingresso ornato e ben incorniciate le finestre. Nella luce del pomeriggio, noto solo il verde degli alberi, e il cielo che va sgombrandosi delle nubi e pare promettere un imbrunire chiaro e una notte stellata. Mi accorgo solo dopo che i fabbricati sono tutti d’un melanconico grigio, adatto plausibilmente al clima, ma desolato per chi è abituato, pure nei dì nebbiosi, a vedere le case di Chioggia, Padova e Venezia tinte di rosso vivo, di porpora, di giallo, di verde. Persino di celeste e viola.

Da una porta sull’ammezzato il collezionista mi apre e con i soliti gentili convenevoli mi porta subito nel salottino dell’appartamento. Non scambiamo nemmeno le impressioni del viaggio perché, conoscendo la sua puntigliosa competenza, lo provoco e mi faccio raccontare delle campagne napoleoniche o della guerra del ’70, quando il Bismarck disarcionò dal trono alquanto vacillante il malaccorto nipote Bonaparte e a Versailles, con una scelta strana, quantomeno di luogo, proclamò il Reich. E infatti nelle tre ore che trascorro in sua compagnia è stato come trovarsi per una galoppata lungo le interminabili pianure renane e danubiane per arrivare fino al famoso passaggio della Beresina. E di lì subire la burla d’un regno sull’isola d’Elba. E di poi affrontare la tristezza di Waterloo, con l’incompetenza dei prefetti arraffatori che riducono il blocco navale con Albione ad un colabrodo. Sentir rievocare la bravura della vecchia Guardia, e la storia del maresciallo Ney, sprezzante con i preti e la religione, che accetta i sacramenti prima dell’esecuzione solo per fare una cortesia ad un suo vecchio soldato di Russia che lo aveva pregato nell’ultima notte di fortezza di non morire così ostentatamente orgoglioso. E lo sfortunato e fedele Charles de La Bédoyère, di nobili natali, e legittimisti per giunta, condannato pure lui a morte dai Borboni per la fedeltà al MitraVaruna di Corsica lungo i cento giorni.

Mi basta solo porre una domanda perché il collezionista divenga un fiume in piena: “mais qu’est-ce que faisait la Gendarmerie d’élite, est-ce qu’ils dormaient?” Alludevo a quel reparto di gendarmeria speciale di Napoleone che immaginavo dal nome dovesse guardare le spalle al Corso dagli intrighi in quel di Parigi mentre lui si ruinava in tutte le contrade d’Europa e che poteva bene aprire gli occhi sui loschi traffici del blocco colabrodo che arricchivano certuni pronti a tutte le fedeltà. Rivoluzionaria imperiale monarchica orleanista e chi più ne ha ne metta. “Ce n’est pas comme tu dis, la gendamerie d’èlite était una garde choisie pour la sauvegarde de l’Empereur à Paris à Malmaison ou pendant les campagnes, ils n’étaient pas une police secrète d’ètat! Qu’est que tu veux, ce sont les hasards de l’histoire, on ne peut pas savoir pourquoi! Il nous faut seulement interroger ce qui se passe après ça” mi risponde l’ospite sconsolato.

Sua moglie, una donna minuta, una Bretone bionda e dai tratti assai fini interrompe per un istante l’animata conversazione dei due strateghi della posterità, quali siamo, per apparecchiare sul tavolino la teiera fumante con il decotto di erbe. Uno dei mille che conoscono i Francesi. D’un tratto, levando lo sguardo verso la parete mi accorgo che vi è appeso un quadretto alquanto naïf e con tanto di firma. È la rocca delle Caminate, apprendo dal collezionista che sorride nello scorgere che la mia sorpresa si congiunge ad una certa ironica perplessità sul valore ornamentale del piccolo dipinto. È di Romano, il quartogenito del Duce. 

Mancava una polizia segreta di stato? Eppure è un plotone di gendarmi d’élite a fucilare il Duca d’Enghien, ma qui l’ospite mi dice che la storia è molto lunga da raccontare e tortuosa e copre di ombre entrambe le parti in causa. Piuttosto vale di rasserenare i ricordi con un accaduto davvero degno di quel tempo di rincorse sui grandi spazi, di concitati imperî, di celeri obbedienze, di lealtà e graziosi strafalcioni. 

Nel consiglio di guerra, riunito dopo la battaglia di Lipsia, sotto la tenda imperiale vi è una cappa di silenzio, la situazione è delle peggiori e nessuno osa prendere la parola. D’un tratto si leva una voce, quella del generale Fournier-Sarlovèze che ha la malaugurata idea di fare al Bonaparte una irritante constatazione: “Sire! Je dis que Vous perdez, Vous et la France!” Ovvero: Maestà, mi sa che perdete, e Voi stesso e la Francia. Il candore della frase, ben in linea con la tradizione delle “lapalissades” del signor De La Palisse, causa all’inavvertito generale una punizione. Caricato su di una berlina e con la scorta d’un picchetto, appunto, di gendarmerie d’élite Fournier-Sarlovèze viene spedito alla fortezza di Mayence. Sulla strada il piccolo convoglio è assalito dai cosacchi. Un gendarme è ucciso. Fournier-Sarlovéze esce dalla berlina e dopo esser saltato sul cavallo del caduto, al quale pure prendeva la sciabola, guida i gendarmi al contrattacco e riesce a metter in fuga i cosacchi. Dopo il fatto, resa la sciabola ed il cavallo alla scorta risale sulla berlina non senza prima aver detto al cocchiere: “Avanti, direzione Mayence”.  

Il tempo è volato e non solo lo spazio, attraversato, nemmeno a dirlo, dalla fantasia immaginativa à vol d’oiseau che seguiva tutte le avventure palesatesi nella conversazione con un collezionista colto e munito di un acuto senso storico. Quello che sovente si manifesta nei cultori di storia militare, presso i quali vivo è il senso delle guerre come punti di discontinuità geografica e temporale. In armonia perfetta con la sentenza del superbo Eraclito che vuole la guerra come padre di tutte le cose. Si era verso il primo timido imbrunire e io dovevo riprender la strada, ora verso Reims. Lungo il commiato, con il sorriso d’un prestigiatore che stia per arrivare al coup de maître, il collezionista mi apriva la porta d’un cagibi, d’un ripostiglio stretto e lungo giusto dirimpetto all’ingresso del piccolo appartamento. Difficile immaginare qualcosa di simile! Dentro lo stanzino vi era una munitissima sartoria militare irta di elmi, armi bianche, lunghe armi da fuoco, cinture e pistole. Lo chasseur des Alpes della campagna del 40 contro gl’Italiani, l’aviere della Flak sulla Manica, il bersagliere in divisa coloniale, il sommergibilista del comandante Dönitz rimasto a Brest e Lorient fino alla metà di maggio del 1945. Queste e tante altre le divise raccolte, ognuna col proprio elmo e l’arma corrispondente. E tutto in perfetto ordine, e profumato anche, e non solo onorato dal tempo come nelle piccole scuciture dei colletti e delle tasche o nello sfilacciarsi di qualche alamaro. Segno che la brava moglie di Bretagna doveva, in effetti, avere una pratica magistrale di cucitrice e stiratrice. Dopo l’abbraccio a entrambi per le belle ore trascorse e l’ospitalità e un bacio ai due disciplinati fanciulli che la madre mi voleva presentare quando, già in pigiama si avviavano nella loro cameretta, uscivo nella piccola via alberata che sbuca sul boulevard. Il cielo era ormai al crepuscolo. 

Il mio raro primato di permanenza parigina si accresce d’un corollario alquanto gustoso: non ho visto le eccelse bellezze pittoriche del Louvre ma ho scoperto che uno dei figli del Duce dipingeva. Nessuna deduzione traggo da ciò. Aver visto i capolavori delle gallerie di fama mondiale non assicura in alcun modo dei passaggi di grado nell’evoluzione mentale. Ci vuole anche altro. Senza cadere nell’eccesso ottuso del trascurare ciò che non si può avere sempre, e a questo ci inclina quell’orgogliosa Zarina che disse che le magnifiche pitture della galleria dell’Ermitage potevano esser interamente ammirate e comprese solo da lei stessa, e dai topi la notte, non mi do in ogni caso alcun cruccio per i musei che ho mancato di vedere.  

Poscritto 

Il cielo notturno potevo ammirarlo ingioiellato nelle lunghe teorie di fanali accesi sulle automobili della via che conduce in Reims. Erano queste luci, nelle ore che si inoltravano verso le ventiquattro, a svolgere l’ufficio di surrogato sotto le nubi del chiarore stellare. Trasfusi in scrittura i capitoli di questo brevissimo passaggio per la capitale napoleonica, rammento, a complementare il quasi nulla che vedevo di Parigi, il suggestivo racconto  d’un’apparizione nella notte della Ville Lumière fatta da Julius Evola in un articolo apparso sul Corriere Padano nei tardi anni 30. L’articolo aveva titolo “Esplorazioni di vita notturna europea” ed era spezzato in capitoli molto brevi. Appunti sulle capitali in attesa, ognuna, della propria catastrofe che non avrebbe tardato ad arrivare, Berlino, Bucarest, Amsterdam, Parigi. In quest’ultima, uscendo a notte inoltrata da un locale del Faubourg Montmartre, Evola annotava l’impressione avuta sulla via nell’aria fredda, tra i passanti in abito da sera, le girls pimpanti, i gendarmi con la caratteristica mantellina, nello scorgere d’un tratto una teoria di Greci ortodossi che percorrevano la strada ciascuno recando in mano una candela con la fiammella accesa. Erano usciti da una vicina chiesa dove si era tenuta una funzione notturna e cantavano un inno sacro camminando, mescolati alla folla che entrava e usciva dai locali di divertimento. Una strana e bella immagine a far da contrappunto alla joye de vivre circostante e annegata, non tanto nell’ambrosia d’immortalità quanto nelle bevande fermentate più irrituali dei cocktails.   

Poscritto secondo

Il quadro appeso alla parete del salottino occupato per quasi tutti i lati da mensole ingombre di libri di storia militare lasciava, pur nella sua modesta bellezza, una traccia. Volevo saperne di più per il fatto che altrimenti riconoscevo nel collezionista un gusto estetico non usuale e, letti i suoi scritti in materia, lo sapevo non solo esperto ma pure buono scrittore. Compulsando qua e là cataloghi vari, scoprivo che Romano Mussolini, noto come pianista e questo non in virtù dell’ascendenza ovvero del nome, era in effetti anche un pittore. Scorrevo i cataloghi e mi riusciva di arrivare ad immagini di alcune sue opere che ho trovato riuscite. Tutte di paesaggi, in toni dominati dai blu scuri del cielo al crepuscolo, mattinale o vespertino, romanticamente abitati da fiumi fra rive con alberi spogli, capanne in rovina, selve e monti lontani. O di spiagge desolate con i natanti abbandonati, i pali infitti sulla sabbia, la cabina dalle pareti sbrecciate.  



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