Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
In una località della laguna, su di un’isola, venne eretta un’architettura che manifestava la propria origine classica. I cosacchi e fra loro frammisti alcuni esuli decisero di buon grado d’intitolare il bel monumento al valoroso ministro Stolypin. Il suo ricordo eroico sta così in fronte al vasto mare. Più in là si volle pure costruire una sorta di tempio ellenico. Lunghi bastoni di legno sbiancato dalle veglie sotto il sole servivano ad imbastire una strana carpenteria dall’equilibrio che all’occhio quasi sembra labile. La levità della struttura compensava la sua apparente poca robustezza e degli ufficiali molto addentro alle letture elleniche e latine le davano l’ufficio di figurare in tenue plastica oscillante ai forti colpi di vento la gloriosa linea summae tenuitatis che risolse la sfida antichissima fra Apelle e Protogene in quel di Rodi su chi fosse dei due il più gran pittore.
Ma ecco la storia di quella contesa. Apelle il maestro dei pittori antichi navigò fino a Rodi con l’intento d’incontrar colui che unico stimava essergli pari nell’arte, Protogene. Arrivato che fu al porto s’avviò verso la casa del suo alter ego e ivi giunto trovò solo una tela candida pronta sul cavalletto e un’anziana donna. Fu così che Apelle prese un pennello e dopo averlo intinto nel colore tracciò una linea assai particolare. Nel far questo, il pittore disse all’anziana fantesca di Protogene, che lo aveva accolto chiedendogli chi fosse, di non aver obbligo di lasciar detto al suo signore chi egli sia, una volta che questi è arrivato, vedendo la linea capirebbe.
Era questa, racconta Plinio il Maggiore, una linea summae tenuitatis, una linea di assoluta sottigliezza.
Protogene al ritorno rimirò la somma tenuità della linea e poi disse che non poteva essere altri che Apelle ad aver compiuto un’opera così perfetta e risolta. E con il pennello intinto in un altro colore tracciò sulla medesima tavola una linea altrettanto sottile dicendo alla fantesca di non dire nulla, e che, se il misterioso visitatore tornasse, avrebbe la prova di trovarsi, appunto, nell’officina di colui che egli voleva incontrare. E ciò detto si allontanò ancora. Apelle ritornò alla dimora del maestro di Rodi e, indicato dall’anziana donna, andò alla solita tavola e, nel vedere la seconda linea, arrossì di sentirsi vinto e tracciò con un altro colore ancora una terza linea che tagliava le due precedenti ed era tale da non renderne possibile una ancor più sottile, mettendo così fine alla contesa col rivale. Questi, tornato alla dimora e vista l’ultima linea, si dichiarò, a sua volta, pure lui vinto e corse al porto per incontrare Apelle. Passati dei secoli il quadro dalle tre linee venne portato a Roma e trovò ospitalità nella raccolta dei dipinti del palazzo di Cesare sul Palatino. Quivi rimase per lungo tempo ammiratissimo in mezzo a tanti capolavori pur essendo null’altro che una tavola nuda con dipinte tre sole linee quasi invisibili. E questo avveniva fino a quando un incendio non distrusse l’augusto palazzo con tutti i suoi preziosi arredi.
La candida tela che in casa di Protogene albergò le tre magistrali linee si è mutata in un vasto panorama di mare cielo e nubi e creste di Dolomiti. E un ufficiale di fervida inventiva estendeva l’allegoria latente al racconto classico: la terza linea, quella trasversale del termine della contesa, dispogliatasi del mantello di vetusti teoremi, portava ora ad un estremo un falco in volteggio, all’altro sosteneva l’ancora con il delfino di Apollo sorridente e attorcigliato allo stelo. Il piccolo golfo pur così nudamente ornato sembra gradito e un cigno ne ha eletto le acque a suo riparo e luogo di svago.
Su di uno specchio d’acque, un’isola lagunare affaccia delle case ed una pieve con cupola. Sull’isola antistante, gli alti alberi hanno invocato Perun che su di loro rovescia ora le sue trasparenti acque atmosferiche, ricche di luce. Era sorta l’idea di apparecchiare una piattaforma flottante con una architettura russa, da spostare qua e là per la laguna. Sulla piattaforma è stata dunque elevata una piccola chiesa con cupola unica. Sull’asta i drappi son agitati dal vento e a fatica, la nave dei Rus’ governa la vela per accostare alla chiesa cullata dalle onde.
Non sfuggiva ai Rus’ della laguna l’idea di un ampio giardino con alberi da frutta. Dei meli, dei peri, dei pruni, dei ciliegi. È scritto nell’Avesta
chi coltiva i frutti degli orti quegli coltiva la purità
e vi era fra i Rus’ chi rammentava il proprio avo, studioso della filosofia d’Oriente e del sanscrito e dell’avestico in quel di Pietroburgo, dopo che la bufera napoleonica aveva ceduto al vento freddo del ritorno impossibile allo staus quo ante. Addirittura si erano tramandati fra i più colti degli esuli i ponderosi volumi di studio di queste antiche lingue. Se su di esso giardino si costruivano due isbe nelle quali riparare gli strumenti dell’arte di dar ordine al rigoglioso fiorire di fiori e frutta ed erbe e curarli da freddo e malanni non si volle far mancare alla piccola selva lambita dalle acque pure una chiesa dalle cinque cupole fiammeggianti ed una minuscola chiesa ad una sola cupola. Tutto venne elevato con la buona legna degli altipiani sovrastati dai picchi delle Alpi.
Per uno strano contrasto, nell’isola antistante campeggia una pagoda dedicata allo Svegliato, a Gotamo Buddho, e frammiste agli alberi di ciliegio che a primavera esplodono in magnifiche chiome bianche alcune ridotte architetture che si compongono come arredi al giardino. Un colonnato rudimentale, un’asta a stendardi, una porta nipponica aperta al visibile del panorama e all’invisibile. Un aquilone che ha trovato la sua corrente si culla oscillando nell’aria.
All’isola buddista si accede per un ponte di foggia strana, che è di dedica a quelle dilettevoli e bizzarre forme che incuriosiscono e ammirano i poeti della remota isola d’Oriente. E però il ponte è costruito alla veneziana, in pietre squadrate e mattoni, e a guardia di esso un obelisco avverte gli incauti che il transito dev’essere guardingo perché non avvenga di precipitare nel canale. Sulle targhe della base i segni suprematisti sono espliciti sul cammino da osservare nel transito.
Una navilio Rus’ a vela spiegata sta per allontanarsi dall’isola frutteto con le due chiese di legno. Di lontano, immobili, i picchi dolomitici vegliano in guisa d’un visibile Nirvana la laguna.
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