Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Il Prof. George Dumezil
I punti nodali dell’architettura ideologica indeuropea sono stati descritti nell’opera del professor Georges Dumézil in tre funzioni di fondamento entro le quali si ripartono gli attributi degli dèi e che vedono al primo livello la sovranità divisa in modo antisimmetrico fra il dio sovrano mago, inquietante, poderoso, lucente ma pure notturno, che avvince coi lacci della sua magia, esemplare è il vedico Varuna, il gran signore della “maya”, dalla radice maj ovvero cambiare, che è la magia ora ingannatrice ora creatrice, e un dio sovrano giurista, legislatore e garante dei patti, benevolo, rappresentato da Mitra. Paralleli, in Roma, il primo a Juppiter, il secondo al pallido Dius Fidius. Al secondo livello vi sono gli dèi della guerra, come Indra o il latino Marte o Thôrr scandinavo. Al terzo livello gli dei della prosperità, della fecondità, della bellezza, della salute: i Nasatya vedici, Freyr nel Nord, o Quirino. La sovranità nel primo livello si articola ulteriormente in altri due dèi ausiliari al seguito del buon Mitra: Bhaga che ripartisce in modo equo, plausibilmente in base all’antico e duro “suum cuique tribuere”, i beni di questa vita, ragione per la quale già nei proverbi vedici fa capolino una massima assai esplicita “Bhaga è cieco”, e Aryaman dio che sovrintende ai matrimoni ed alla continuità della società aria indeuropea. Fra gli attributi di quest’ultimo vi è anche il proteggere l’ospitalità ed il sovrintendere alle strade. La ricostruzione del Francese è completa quanto gli antichi documenti lo rendono possibile e anche in Roma si ritrovano i corrispondenti di Bhaga e Aryaman: essi sono Terminus, il dio che vigila sui confini fra i poderi, ben comprensibile nella sua utilità ad una prisca società rurale romana, e la generosa Juventas che protegge il futuro delle stirpi latine vigilando sui giovani. Quanto al mito di fondazione della società tripartita indeuropea va altresì rammentato che entro il suo modello divino è avvenuto che i superbi dèi sovrani e quelli della guerra non si siano subito accordati con i più modesti dèi della prosperità e della salute, se non dopo un conflitto che li vedeva contrapposti ed il seguente sacrificio di un buon gigante. Nel Veda infatti Varuna e Indra sono stati in guerra con i Nasatya, o Asvini, i gemelli benevoli che Varuna, il sovrano arbitro della “maya”, ed il possente guerriero dalla barba rossa ritenevano essere dei numi ma d’un rango minore. Un eremita, dato che si è alle pendici dell’Himalaya, era l’alleato dei Nasatya, al quale essi avevano reso la salute, e richiesto in soccorso dai gemelli fabbricava colla sua forza mentale un gigante, il cui nome, Mada, vale come “Ebbrezza”. Mada minacciava dunque di inghiottire tutto il mondo, divinità recalcitranti comprese, se non si poneva termine alla contesa. Cedendo Varuna anche Indra allora cedeva e l’accordo poteva farsi: i Nasatya sono da allora associati alla comunità divina, mentre Mada, esaurito il suo ufficio, si accontentava di esser tagliato in quattro parti dal pio eremita e la sua essenza distribuita nella bevanda di ebbrezza, nelle donne, nel gioco e nella caccia. Nel Nord germano-scandinavo, colla lotta fra Asi e Vani, e nel Latium vetus, con il ratto delle Sabine da parte dei Romani, Dumézil mostra l’esatto, o quasi, parallelo del mito indeuropeo di accordo delle prime due funzioni colla terza, esplicato in forma drammatica nel racconto vedico qui riassunto.
L’architettura tripartita e mirabile ricostruita dal Francese non esaurisce, è chiaro, il meraviglioso mondo dei numi vedici e quindi romano-italici e germanici e oltre. Esso appare infatti come una carpenteria affastellata ed elastica dove le colonne maestre, i numi principi, hanno correnti e travi che le legano: i tanti altri numi che vi stanno intorno e a volte si distinguono per un qualcosa, a volte sono così lontani da apparire immersi nell’immenso e indistinto mondo celeste. Di questi ultimi sono Dyaus, il padre di tutto, il cielo luminoso, Prithivi, la grande “estendentesi”, che Angelo De Gubernatis nel suo “Letture sopra la mitologia vedica” individua con bella indagine, in una sorta di madre celeste intesa come un cielo pieno di acque, quello completamente nebuloso e grigio; Aditi, la gran volta celeste, l’”interminata” che assume in sé la coppia cosmica Dyaus-Prithivi, e poi Râtri, la tenebra illuminata ovvero la notte accesa dai suoi mille occhi quali sono le stelle nel Rg-Veda. Dei primi è la bellissima Ushas, l’Aurora, che inganna Varuna e lusinga Mitra; è Agni, il fuoco, nato dalle acque, e generato poi ogni volta dai due “arani”, i bastoncini di legno strofinati fino all’incendio; è Parganya che figura come un reggitore delle nuvole tonanti e piovose e, percorrendo il cielo con il suo carro, rovescia dal barile inesauribile che sopra vi è caricato l’acqua della pioggia sulle valli assetate e si rende eguale al Giove Pluvio dei Latini per divenire in tempi inoltrati il Perkun e di poi il Perun dei Baltici e degli Slavi; è Savitar, l’”impulsore” o il “generatore” che feconda il suolo e dona ai devoti nutrimento in cibi e ricchezze, e pure questi si muove sull’ennesimo carro che però è d’oro e trainato da aurei equi, è Pûshan, il “ nutritore”, il nume che la sera accompagna il bestiame nelle stalle e lo protegge e lo accresce, ed è anche il nume che aiuta i viatori a trovare un riparo per la notte; è Dhâtar, il “collocatore”, che aiuta nella generazione di eroi e principesse e semplici fanti e agricoltori e donne poi che Aryaman ha unito i loro padri e le loro madri con il matrimonio. Ha uno stato divino Tvashtar, fabbro e falegname, l’artefice divino di tutte le forme e gran costruttore anche di quei carri da guerra che permettevano alle orde arie la conquista. Esso ha, coerentemente, in Vayu, che è il vento di tempesta trasformato in nume, il suo genero. E sono pure tracce di miti cosmogonici quelle che qua e là negli inni, spesso composti con un ordine alquanto vago, possono intravedersi: il pilastro cosmico, lo Skambha è l’asse del mondo che come un albero si leva dalle acque del caos, contiene in sé l’intero Indra e porta l’embrione di tutte le cose.
Altri numi compaiono e non è affatto immediato poterli collocare entro la mirabile architettura tripartita o forse lo si può fare, per un arbitrario contrappunto estetico, in varie guise effettuando delle scelte che non sono più disciplinate dalla precisione rigorosa sulla base di un inno rigvedico nel quale i numi sono descritti nelle loro spesso cangianti e multicolori attribuzioni ma assumono carattere di semplici concordanze poetiche. E però che sia del tutto necessario di stabilire entro questa carpenteria, elastica per suo volere, la silvestre Aranyani, la madre delle belve e l’unica, la profumata, l’apportatrice di cibi senza che si abbia il duro dovere di arare il suolo? Può dunque una Diana rigvedica assoggettarsi ai lacci sovrani di Varuna e a quelli marziali di Indra? Sembra difficile crederlo, la si può immaginare eventualmente devota solo del lontanissimo e obliato Dyaus. E quindi sovrana a sé stessa sotto il cielo che la protegge. Oppure, per altra ispirazione, la possiamo immaginare perfettamente in armonia con i gemelli Asvini, quando Ushas, l’Aurora, si sia addormentata per non svegliarne una sempre possibile e divina gelosia, ad ispirare in un devoto e solitario poeta i canti delle selve. E Soma, ora sorgente ora ruscello e poi pianta nel vaso, ambrosia divina e nèttare di ebbrezza e d’immortalità è il gran nume alato che vola per andare a posarsi nei recipienti di legno come raccontato nel Rigveda. Entro che grado della tripartizione e a quali numi deve essere associato? Complicato vincolarlo ad uno stadio unico. Indra è l’inesauribile assetato, è l’impenitente bevitore del Soma ma pure l’oscuro agricoltore o il poeta ispirato ne sono bevitori.
Se dunque risulta complicato assegnare uno stadio assoluto a tutti gli dèi d’un numeroso Olimpo nell’architettura tripartita e di poi così meticolosamente articolata pure, per il solito contrappunto che è un vero artificio della “maya” di Varuna, che cambia, confonde e altera ciò che è alterato, non è possibile sottrarsi allo charme estetico che invade di sé come “ebbrezza” d’ordine, purità di forme e caratteri, aggraziata semplificazione e filosofia contemplante questa visione in triade di antiche e ormai lontane apparizioni divine. Viene da pensare che, per tali dèi olimpici, per ospitarne l’immagine non si addica certo l’elaborata e perfetta e disciplinata simmetria delle svettanti architetture medievali che necessitano di collocazioni esatte e assolutamente definite e, procedendo a ritroso, forse nemmeno le più tarde invenzioni dell’edilizia romana, più semplici, certo, ma ancora troppo articolate ed esteticamente cariche di ornamento. Il tempio ellenico, nella sua forma di capanna con il tetto a due falde, che appare di composizione elementare se visto di estremamente lontano, ed è aggraziato e superbamente rifinito quando viene contemplato da di presso è forse l’architettura atta a comprendere questi numi così precisamente e semplicemente tripartiti nel loro associarsi. In ogni caso procedendo con cautela in questo susseguirsi di arbitrarie suggestioni, are o erme da dedicare ai due sovrani, il divino mago ed il divino giurista, all’indomito condottiero, ai due gemelli medici e alla loro sorella Aurora è facile assegnarli entro la mirabile rudimentale architettura della capanna a due falde. Per gli altri numi è volgendo lo sguardo attraverso il colonnato, segno inequivocabile di pareti sempre aperte, che possiamo immaginare di scorgerli nei pressi e ora varcano il limite invisibile posto dalla fila di colonne e si riparano sotto il tetto ora ne escono e si riparano nella selva o vagano indomiti per le colline.
In fine, a riparo e dedica a questo Olimpo blandamente e pervicacemente tripartito possono bastare, e ciò forse ne accresce lo charme estetico, il fascino, le belle rovine di templi elleni e romani che abbiamo imparato a disegnare dai viaggiatori settecenteschi in cerca di Arcadie. In tal caso della carpenteria ne scorgiamo tanto l’insufficienza quanto la solidità.
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