Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
È un’esercitazione dilettevole adattare in senso figurato al ricordo del re Federico il Grande di Prussia una bella uniforme di gala intessuta ora non più solo di studi storici e dotta letteratura ma pure impreziosita nella sua stoffa dai numi della tripartizione indoeuropea. A sovrani dalla individualità così svettante e dall’agire memorabile è impedito dal fato di restare immoti nella quiete iperborea della prima funzione lungo l’attendere i doveri, spesso ingrati e faticosi, della vera regalità. La loro regalità diviene, in virtù degli avvenimenti assegnati dal procedere della storia, rivoluzionaria se così si possa dire con un giuoco di termini che non può che far impallidire il cultore della solida etichetta ed il custode del buon tempo antico. E quando i tempi annunciano tempeste è proprio la prima funzione a dover raccogliere tutta l’intelligenza ed ogni energia per poter transitare in buon ordine su flutti sempre più agitati la società che a tale prima funzione fa capo e in essa cerca riparo. E per far questo si deve impugnare con senno lo scettro e dipoi agire con talento anche entro i domini delle altre due funzioni. Se così non si opera cade la necessità di essere re e balenano altre rivoluzioni che, lo dimostrano molte vicende storiche, sorpassano nei loro eccessi ogni abuso regale come era stato ammonito giustamente da un attento testimone di rivolgimenti inarrestabili quale fu il principe di Metternich.
Federico il Grande è Mithra, il legislatore, quando riforma l’apparato amministrativo prussiano e soprattutto invita a non esercitare sulle spalle di un popolo, reduce da guerre e non favorito dalla natura del suolo, delle vessazioni giuridiche, morali e religiose che giungano fin entro le mura domestiche. È, questo, un esempio che dovrebbe essere sempre rammentato e si rivolge tanto alla burocrazia quanto e soprattutto al clero, meticoloso casuista di colpe e mancanze spesso necessitate da dure condizioni di vita. È il notturno Varuna nel suo ispirato isolamento di filosofo. Scettico eppure capace di usare, talvolta, caustica ironia, e inflessibile nel minacciare ed elargire punizioni. È sempre Varuna nella condotta senza troppi riguardi della sua politica. Ma qui resta sempre giustificato un quesito da porsi: e suoi avversari ne avevano forse di maggiori di riguardi? Si astenevano per purità d’animo dalle astuzie e inganni? È naturale qui dubitare. Federico ha mille occhi come il sovrano cosmico del Rg-Veda quando scruta ogni documento amministrativo e tutto vuol sapere dei paesi esteri. E però non eccede, e da quieto filosofo riflette nelle lunghe notti sui mille usi possibili di questi mille occhi sull’utile che se ne trarrebbe e sulle conseguenze delle quali pur si deve tener conto. Una prova di ciò la si ha allorquando il geniale sovrano risponde al suo ministro di polizia che gli proponeva di assoldare degli informatori per spiare e sapere più capillarmente di quanto succede nel regno: “se questo è il prezzo che devo pagare allora vi rinuncio” disse il re. Va da sé che non era il prezzo materiale che il Prussiano aveva in mente nello sdegnare l’offerta. È il folgorante Indra nella condotta impavida delle sue dure guerre.
Da quella dei sette anni a quella finale detta “delle patate”, ovvero il Kartoffelkrieg, contro l’Austria. E qui è inutile enumerare le stazioni del suo coraggio e della sua ostinazione. È Bhaga, colui che fa le parti in giusta misura, ed Aryaman, colui che tutela i matrimoni, quando si occupa di far avere una pensione ad un oscuro e bravo maestro di scuola impoverito che era pure scrittore di favole e poi quando, ricevuta una lettera di supplica durante una passeggiata solitaria a cavallo da due giovani sposi postisi sul ciglio della via, fa avere loro dell’aiuto economico per favorirne la crescita domestica. Incarna entrambi gli Asvini, i gemelli che proteggono la salute e promuovono la bellezza, quando si premura di far diffondere quanto più capillarmente possibile la coltivazione della patata che sola, in quella landa fredda, nebbiosa e non incline a grandi raccolti di cereali, può garantire sempre un nutrimento sano e una dignitosa sopravvivenza alla popolazione. Nelle ispezioni dove si assicura che i panettieri dell’esercito svolgano il loro ufficio con dedizione a quella che è la sua “quinta arma”, l’annona militare. E quando nei conviti illuminati dai fastosi lampadari a candele suona al flauto le sue composizioni. E però nello scrivere in versi francesi i poemi filosofici, o trascrivere le sue lucide riflessioni sull’arte di governare in margine alle ordinanze di stato rende più plausibilmente un omaggio all’inquieto Varuna pure ponendosi un limite invalicabile nell’arbitrio, forse un anticipo del “limite creatore” di cui argomenta Goethe, nel suo pamphlet dell’Antimachiavelli. Aiuta il grande Bach e ne comprende fra i primi l’immensa grandezza, e così è sul carro degli Asvini nell’ora più sfolgorante di rosea attesa dell’Aurora. La quale annuncia con il suo indicibile color cremisi, chiaro e trasparente, la prossima covata di genî destinata a fiorire nel tempo di Giuseppe II e Metternich e Bismarck.
Ma non si affatica, non indulge nell’eccessivo e polveroso tormento dei dotti a studiare sui corposi ed illeggibili volumi e trascura tanto di leggere Kant, aveva a malapena scorso le opere del filosofo Wölff, quanto, e ciò anche per dare respiro alle casse dello stato, di trovar un impiego prussiano per il Winckelmann che pure aveva conquistato fama già allora imperitura con il tradurre nella formula di “eine edle Einfalt und eine stille Größe “, voltata in “una nobile semplicità e una quieta grandezza” i principi del grande stile della plastica e dell’architettura elleniche. Una strana e dilettevole contraddizione, questa, che sembra gettata come un’irridente ombra varuniana, una specie di laccio ingannatore, dato che proprio nel prussianesimo fridericiano generazioni di scrittori germanici di poi vorranno vedere l’eredità compiuta del mondo dorico degli Elleni. Ma forse si tratta solo d’un’apparente contraddizione. Solo doti del carattere ed atti effettivi possono accampare una similarità con il passato mondo dorico più che il lungo studio e una meticolosa filologia che pure sono utili e augurali ma nei frangenti di culmine non sono necessari e ancor meno sono bastevoli. E per le doti del carattere ci pensava pure Federico medesimo ad impartire qualche lezione, senza necessità di ponderosi volumi a stampa, con il suo bastone battuto sulla schiena di sprovveduti ufficiali e ministri che avevano mancato nei loro uffici, o di incauti e maleducati passanti berlinesi che si erano comportati da zotici per le vie.
Qui mi arresto e mi voglio ricordare d’un quadro dipinto nel 1868 da Oskar Begas e che ritrae l’anziano e stanco Federico seduto in un angolo oscuro della cappella d’uno dei suoi palazzi, mentre ascolta una musica per organo del compositore Graun. Forse sono le note del Te Deum. Il re è nell’ombra e solo . E l’architettura che si vede e la musica che si intuisce, esse sole nella figurazione paiono esprimere un qualcosa che sta in muto contatto con il grande sovrano. Il quale cerca riparo nella dimora inestinguibile dell’arte come il lontano pastore nel Rg-Veda cercava, in dimore benevole per sé e gli armenti, i ripari nelle notti confidando nell’aiuto di Pûshan, il nume “nutritore celeste” che, per un caso divenuto singolare per la coincidenza, corrisponde all’ellenico Pan, da sempre il maestro dello strumento caro all’indomito re.
Poscritto
Nella tolleranza religiosa di Federico, condensata nel proverbiale denn hier mus ein jeder nach seiner Fasson selich werden!, si scorge il filosofo scettico e pronto ad altre e più fredde sentenze. La frase pare sia stata pronunciata in francese, lingua prediletta dal sovrano tanto nel parlare quanto nello scrivere, ma qui si è data la nota versione tedesca che cerco di voltare con dello stile obsoleto: “che qui ognuno ha da divenir santo secondo il suo modo”. Par di sentire come basso continuo della riflessione, che fin qui porta, una gaia distaccata ironia. Se nel presente caso sia da assimilare al reggitore di Prussia il re Varuna o forse il lontano celeste Dyaus proprio non so dire. Certo alla religione, a qual si sia religione, guarda questo sovrano con occhi del tutto spassionati. Né deve immaginarsi da queste linee che Federico avrebbe fatto diversamente pure se si fosse trovato a nascere in un mondo di dei rigvedici o altrettanto primordiali. Il suo atteggiamento verso entità per così dire sovrannaturali può rammentare piuttosto quello del giovane principe Gotamo nei riguardi dei riti e degli dei e ben descritto in alcuni discorsi del Mahijimanikayo. Nel Federico che lungo i ultimi suoi anni si concede di bere i migliori champagne i quali si fa arrivare dalla Francia, e ciò tanto da divenirne intenditore, si può al contrario riconoscere un Indra che attardatosi nel tempo beve, e però con atteggiamento disilluso, il Soma, il liquore di ebbrezza e immortalità che corrisponde all’ambrosia degli antichi Elleni. La vera ebbrezza essendogli data in ultima istanza verosimilmente dalla grande musica come sembra di poter vedersi nel quadro di cui è detto sopra.
Poscritto secondo
In un precedente capitolo dedicato ai castagnacci apuani e alle patate introdotte da Federico il Grande nelle marche più povere del suo regno entrava nel racconto anche la figura della Duchessa di Parma, Maria Luigia d’Asburgo.
Era dalla lettura d’una bella biografia di Guareschi scritta da Alessandro Gnocchi che provavo per la prima volta una curiosità per le vicende di Maria Luisa d’Asburgo. La graziosa e pia e devota figlia dell’Imperatore Francesco d’Austria, che andava in sposa controvoglia all’usurpatore dei troni, Napoleone, stante l’interessata approvazione del Metternich, più accorto e intelligente di quel che non si creda, e certo sempre ben di più dei suoi sovrani, nel cercare di sopire i venti di tempesta salenti dal vulcano accesosi con la grande rivoluzione. Al tempo del suo studio liceale in quel di Parma, e quindi nei tardi anni venti, il futuro disegnatore delle figurine dei trinariciuti frequentava la bohème della città ducale e nei caffè del centro poteva ascoltare le lezioni non più gravate dalla cappa scolastica d’un professore appassionato d’arte e storia locali il cui nome ora mi sfugge. Questi iniziava i suoi sodali ad una sorta di culto per quella temperie che in Parma va dal 1815 al 1844 circa ed è passata alle cronache come l’epoca della Maria Luigia. Questo il nome della sovrana che, lo ricordo perché suonava caratteristico, si leggeva sulla biografia di Guareschi. Scorrendo qualche cronaca sono venuto a conoscere che con un decreto era stata data questa come dizione esatta del nome della duchessa, quale i sudditi dovessero tenere per ufficiale e gli atti dovessero portare come intestazione. Stranamente non era il consueto e più fine Maria Luisa, di grata memoria fiorentina, e si ricordi qui la lungimirante principessa elettrice figlia di Cosimo III e sorella di Gian Gastone, ma un più rustico Maria Luigia, che, in fondo, appare più in tono con l’atmosfera da elegante provincia d’Europa del piccolo ducato la cui capitale è nota da sempre anche per la gustosa cucina. Dunque l’epoca della Asburgo già Imperatrice per matrimonio era coltivata nel ricordo di questi colti parmensi per avere abbellito la città e i suoi dintorni con ville, giardini, ponti, argini e strade e per aver promosso da pari suo tanto le arti quanto le opere di carità.
Non riesco più, ora, a rammentare se l’Autore della biografia collegava alla memoria della Duchessa qualche aspetto sopravvenuto nell’arte o negli atteggiamenti di Guareschi. Ma certo qualcosa di ciò lo si può scorgere anche senza troppo soffermarsi su meticolosità critiche. La fede monarchica e cattolica dello scrittore della Bassa, la sua perplessità di fronte a qualsiasi retorica, anche quella della Patria, il fine senso della joye de vivre di provincia senza alcun complesso d’inferiorità nei confronti delle grandi capitali o, in letteratura, dei nomi altisonanti, paiono davvero potersi coltivare armoniosamente solo in un clima simile a quello instauratosi attorno il professore, leale custode della memoria della Duchessa. Della quale inoltre si poteva sorridere per le sue debolezze, biasimandole anche, ma ciò senza troppo infierire. Quanto si sapeva in Parma, ovvero della compagnia costante del Neippberg e della nascita dei due figli illegittimi, era stato rigorosamente obliato per buona etichetta cattolica in quel di Vienna. E qui, d’altra parte come descrivere l’aspra difficoltà di una natura semplice, quale era quella della pia Duchessa, a seguire il fato cui certi eventi come una nascita imperiale l’hanno costretta? Fu sposa del Bonaparte e generatrice della sua dinastia ma bistrattata dalle altre dame francesi che videro in lei una nuova ”austriaca” in Parigi, con la triste allusione all’ultima regina di Francia; venne criticata a Vienna anche dalle altre donne della casa d’Asburgo per non aver seguito nella malasorte quegli che era pur sempre suo marito, Napoleone; fu madre d’un figlio sul quale pareva ad un certo punto che l’unica reale potestà fosse quella duramente esercitata dal Metternich. Se vi era debolezza congenita nel carattere, non vi è dubbio che le circostanze sopravvenute avrebbero richiesto un grado di forza muliebre non semplice a improvvisarsi se non pervenuto in dote innata. E giudicare non è dato né è possibile. La comprensione aliena di risentimento per quel che può causare una sorte difficile quando precipita su spalle provate e non vigorose è una delle maggiori peculiarità che incontriamo leggendo l’opera di Guareschi e che lo rendono grande scrittore. Plausibilmente maturata anche attraverso le lezioni dell’appassionato professore sulla Duchessa già Imperatrice e il suo minuscolo e grazioso Ducato.
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