Editoriale

La Grande Bruttezza delle nostre periferie dietro la rivolta di Tor Sapienza

Grazie ai laureati in architettura i quartieri ormai degradati sono il frutto di un modello progettuale e culturale che ha rescisso volutamente ogni legame con la tradizione delle città italiane

Marco Di Eugenio

di Marco Di Eugenio

a rivolta di Tor Sapienza è il risultato del fallimento di politiche immigratorie italiane ed europee (che è il caso di dire, fanno acqua) oltre che di una crisi economica che ha esasperato la convivenza e l’accaparramento delle poche risorse a disposizione. E fin qui nulla di nuovo. Già sentito, già detto. Quello che invece non è stato sottolineato abbastanza è che il degrado e il malessere delle periferie sono anche figlie di un processo di “urbanesimo antisociale”, per dirla come Alain De Benoist. Dietro l’espressione del filosofo francese, apparentemente impegnativa, c’è in realtà una riflessione molto facile da comprendere, anche perché è sotto gli occhi di tutti: le metropoli, le città sono diventate non più un luogo, ma uno spazio. Prima l’urbanizzazione, mirava a porre l’uomo al centro della città, secondo un ordine e un senso, ora no.

La questione è global, riguarda cioè ogni città della Terra, ma rimaniamo in casa nostra. E veniamo ai colpevoli. Per una volta, la lancetta del tempo non si ferma agli ultimi vent’anni (che è poi un modo per attribuire la colpa dei mali italici a Berlusconi) ma torna indietro agli anni sessanta e settanta, quando vennero pensate e realizzate molte delle nostre periferie. Oltre alle immancabili responsabilità della miope politica nostrana, quasi tutti gli eco-mostri vanno messi sul conto di certa sinistra o se preferite di alcuni “architetti, urbanisti e progettisti che quando non erano comunisti ispirati a modelli sovietici erano «modernisti» progressisti, organici o vicini ai partiti della sinistra, comunque nominati dalle giunte amiche”, come sottolineato da Luigi Mascheroni sul “Il Giornale”.

Il risultato? “Alveari umani in formato casermoni che producono deserto sociale e giungle criminali”. Il riferimento, tutt’altro che casuale, è al Corviale a Roma (Mario Fiorentino), allo Zen a Palermo (Vittorio Gregotti), alle Vele di Scampia a Napoli (Franz Di Salvo) senza dimenticare il Rozzano a Milano, il San Paolo a Bari o le Vallette a Torino e il Biscione a Genova.

Attenzione! Non si sta sostenendo che la sinistra italiana abbia provocato il degrado urbano, ma che abbia forti responsabilità sì. Detta altrimenti: l’egemonia culturale passò anche per i Piani regolatori. Sì, perché l’ideologia ha avuto il suo peso. Quegli edifici, infatti, sono venuti su non solo con le gru, ma anche attraverso un modello progettuale e culturale che ha rescisso volutamente ogni legame con la tradizione delle città italiane. A partire dall’idea di far convivere negli stessi palazzoni persone, etnie e culture diverse perché tanto siamo uguali. La realtà, si sa, è diversa dalle buone intenzioni e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Sradicamento sociale e orrore urbano. Così le periferie sono diventate scheletri nell’armadio. Qualcosa da rimuovere dalle cartoline e dai lustrini dei grandi eventi. Il cinema ne fornisce una chiara testimonianza: Fellini nella Dolce Vita raccontava sobborghi come parte integrante di Roma, Sorrentino nella Grande bellezza solo il centro, che identifica la città. Il resto, la Grande Bruttezza, va nascosta…

 

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