Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
ittà. Urbanistica. Paura. Rabbia. Ricostruzione. Crisi. Immigrati. Dopoguerra. Case. Ecco un canestro di parole-simbolo, che più di frequente si ritrovano di questi tempi negli articoli di giornale e nei talk show televisivi; una scelta che ricorda quella, periodicamente rinnovata dall’ISTAT, a metà tra l’arbitrario e il convenzionale, destinata a simboleggiare le evoluzioni del tenore di vita italiano e a governare l’inflazione legata all’aumento del costo della vita stessa.
Come in quel “paniere”, anche in questo, che non ha alcuna pretesa di scientificità o di autorità, è possibile individuare i tratti di un disegno unitario in movimento, dove passato, presente e futuro di una comunità lanciano segnali che dovrebbero essere còlti in primo luogo dalla classe politica (non solo da quella al potere).
Cominciamo dal principio, cioè dal nostro passato recente, che affonda le radici in una terribile guerra perduta e, insieme, da una fortissima volontà di rivalsa nella ricostruzione collettiva delle città distrutte, ma anche di una morale e di costumi messi a dura prova dai cambiamenti, portati anche dal conflitto. C’era una Nazione al lavoro, con l’idea non solo del riscatto individuale e familiare, ma anche della partecipazione ad un’impresa comune. Lavoro: ecco un’altra parola che troppo spesso appare nelle cronache, per deplorarne la precarietà, se non addirittura la mancanza, e contornata da vocaboli quali tutele, reintegro, giuslavoristi, scioperi, licenziamenti arbitrari, discriminazioni, straordinari, ferie, statuto dei lavoratori, settimana corta (o cortissima), demansionamento: un pacchetto di espressioni ignote a quell’epoca di fermenti, di entusiastici sacrifici – personali e collettivi – di ambizioni e di fiducia nell’avvenire.
E le città? Luoghi dove ritrovarsi: le piazze, per le feste ed i comizi; i cortili e le strade, per farvi giocare i bambini, senza timore di molestie o rapimenti; i bar, le botteghe di barbiere, gli stadi, gli oratori, per gli svaghi innocenti, basati sempre sullo “stare insieme”. Le città, dove l’architettura popolare si era espressa in villini a misura d’uomo – di famiglia – e il buio, sia nei centri storici che nei quartieri nuovi, non faceva paura, nemmeno ai “metronotte” in bicicletta che giravano da soli e che bastavano, come misura di deterrenza, a mettere in fuga “i soliti ignoti”. Le città, dove i negozi esponevano mercanzie “povere”, oggetto dei modesti desideri di grandi e piccini, desideri che raggiungevano il culmine nella passeggiata pomeridiana del sabato (la domenica, da dedicare al Signore, i negozi restavano rigorosamente chiusi).
Di questo passato recente, costituisce una testimonianza attendibile tutta una filmografia in bianco e nero, da “L’onorevole Angelina” a “Una vita difficile”, da “Guardie e ladri” a “Una domenica d’agosto”, da “I soliti ignoti” (appunto) a “Ladri di biciclette”, da “Poveri ma belli” a “La dolce vita”, in una gamma variegata ma che ci restituisce, nella commedia, nel dramma, e perfino nella tragedia, un’immagine positiva della nostra Italia.
In pochi decenni, questa immagine si è deteriorata, in parte sotto i colpi dei profondi mutamenti allogeni, quali la ventata contestataria del 1968, il crollo del Muro di Berlino, la crisi delle ideologie, la globalizzazione, l’affacciarsi alla ribalta della storia di popoli non più disposti a restare ai margini, l’insorgenza di crescenti flussi migratori dal sud al nord del mondo, il profilarsi di nuove forme di civiltà nell’Occidente prospero (forme camuffate da crisi persistente, ma passeggera), la diffusione di un terrorismo globale alimentato da intolleranze e fondamentalismi religiosi.
Gli effetti di questa massa di fenomeni eterogenei e incomprimibili, sullo sfondo di una generalizzata secolarizzazione, hanno interagito, in Italia, con una serie di processi peculiari, che qui elenchiamo a puro titolo esemplificativo: l’indebolimento del principio di autorità, che ha investito le Istituzioni pubbliche e la Famiglia, la Chiesa e la Scuola; la diffusione di un benessere le cui fonti sempre meno erano legate al lavoro ed alla produzione e sempre più all’indebitamento ed alla pubblica assistenza; la ricerca della felicità, identificata con il piacere personale, in luogo degli obiettivi comuni e collettivi; la ripulsa delle difficoltà, a partire dalla scuola, fino alla pretesa di elaborare ed erigere a dogma una teoria dei diritti, finalizzata alla rimozione di tutti gli ostacoli dal cammino della nazione e dei singoli: il diritto alla casa, il diritto al lavoro (anzi: al posto di lavoro), il diritto di contrarre e di sciogliere i matrimoni, il diritto di abortire, il diritto di avere figli comunque e con qualunque mezzo, il diritto di essere promossi a scuola, il diritto di morire come e quando si vuole, il diritto di modificare le regole, i dogmi e gli insegnamenti della Chiesa cattolica, anche quando si rivendica la più completa laicità e così via.
Su questa strada, la tecnica ha fornito tutte le sponde possibili: il solitario, straniante rispecchiamento (specie dei giovani, ma non solo) nel video e nel monitor – sia quello della Tv o dello smartphone, del computer o della play station – ci rende l’immagine plastica dell’individualismo che sta alla radice di quella “cultura dei diritti”, sprovvista della controparte necessaria assicurata dalla “cultura del dovere”. Si capisce allora una delle tendenze di fondo della nostra politica, a sua volta profondamente trasformata rispetto a quegli anni del dopoguerra: il superamento dei corpi intermedi “pubblici”, quali i sindacati e le associazioni di categoria, a vantaggio di un personalismo esasperato. Così, oggi la politica è in genere strumento di successo individuale, ancor più che conquista ed esercizio del potere a beneficio della comunità: chi da ragazzo intraprendeva la carriera nell’era della militanza, sapeva che ad aspettarlo stavano i manifesti da attaccare ai muri e il ciclostile, le riunioni in sezione e magari le botte in piazza, per poi intravedere, ove si decidesse di proseguire, la candidatura al Consiglio Circoscrizionale, e così via, fino al Parlamento e al Governo, nei casi di maggiore merito e fortuna; il tutto nel nome di ideali comuni; oggi, chi vuol fare politica – e, soprattutto, “riuscire” – sa che può bastare un computer e qualche buona frequentazione, ma soprattutto sa che può puntare direttamente a qualche lucroso seggio in Regione, in Parlamento, in Europa, in qualche Consiglio d’Amministrazione di Enti Pubblici. Niente scuola di partito, niente “gavetta”.
In parallelo, si sono acuite talune contraddizioni: si va in pensione più tardi, ma si rischia di essere estromessi dal circuito produttivo più presto; si svaluta il matrimonio, anche con l’abbreviazione dei tempi del divorzio, ma se ne vuole estendere lo statuto anche alle persone dello stesso sesso; si esaltano la selezione e il merito, ma si continua ad allontanare le difficoltà dalla scuola (vedi abolizione delle commissioni esterne agli esami di maturità) e a mantenere gli automatismi negli avanzamenti di carriera (per tutti, nella Pubblica Amministrazione, valga il caso dei magistrati). Tanto per fare solo alcuni esempi.
Cosa è rimasto allora di quell’Italia in bianco e nero? Davvero poco: forse la necessità di andare a cercar fortuna all’estero, forse la paura; solo che in quel tempo a far paura erano i marziani, i comunisti di Mosca (o, sul fronte opposto, i biechi rappresentanti del capitale e della reazione incarnati dalla CIA), la Bomba (nel ricordo recente di Hiroshima), tutte realtà dislocate fuori dai confini; oggi la paura alligna nelle città, circondate e/o invase da migranti e abitanti delle borgate, accomunati dalla incapacità di intravedere un futuro degno di essere vissuto.
Non possiamo nn dirci conservatori, e allora attenti con la santificazione della tecnologia
Quel che la Corte Suprema non ha considerando riguardo al divorzio
Perché la destra sta sparendo dall'agone politico
Mettete la museruola ai genitori incoscienti
Se le donne vincono quando in politica i migliori rinunciano