Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Julius Evola
Gli eruditi di professione, e qui nel caso specifico si allude agli storici dell’arte, ma pure agli appassionati delle collezioni, e ai pittori medesimi, tutti hanno sovente trascurato nei loro scritti completamente o quasi la forma che l’arte senza figurazione di oggetti visibili, ovvero l’arte che si dice astratta, aveva preso nei quadri di Julius Evola.
Per avere il panorama completo del tempo in cui il filosofo romano si trovò impegnato come pioniere e poi teorico di quest’arte, sarebbe interessante ad esempio anche lo stabilire una volta per sempre chi sia il primo vero pittore di quadri astratti in Italia, ovvero se questi non sia Balla con le strane composizioni a soggetto cosmico quali i quadri con i pianeti intermessi a figure della geometria, e fra questi rammento subito il suo “Mercurio che passa dinanzi al Sole”. Oppure se non sia il futurista Ginna che pure aveva dato un abbozzo di teoria di questa specie di figurazioni senza oggetti e costituite di pure linee, campi di colori, grumi di tinte accostate illogicamente le une alle altre. Oppure ancora se non spetti proprio ad Evola la prima effettiva e consapevole composizione di una serie di pitture le quali seguono un’esatta linea teorica. Quest’ultima ben tracciata nel sorprendente volumetto Arte Astratta del 1920, che ancora oggi è un’inesaurita fonte per non comuni riflessioni estetiche. La discussione sulle priorità resta in ogni caso utile solo per stabilire i tempi e restituire dei meriti; essa al contrario dice poco, in fondo, sul valore e sul senso che ancora oggi può avere un’arte astratta.
Dalle lettere del Romano ci si può a volte quasi ingannare su ciò che significò la pittura astratta per il suo Autore. Nello scambio epistolare intercorso con Boris De Rachewilz, professore universitario e storico delle religioni, lungo i primi anni sessanta del secolo precedente, Evola pur raccontando dell’attenzione che i suoi quadri avevano suscitato presso ad eruditi capaci di non aver paura d’un nome e presso sinceri appassionati d’arte, dopo che la mostra svoltasi nella capitale aveva visto un certo successo, con la vendita di molte opere, si premura di esplicitare al destinatario la sua nulla propensione a voler essere ricordato quale “pittore”. Questo atteggiamento del filosofo è perfettamente comprensibile se solo si rammenta o si cerca di immaginare quale fosse la temperie di quegli anni. Uscita l’Italia dalla crisi del dopoguerra e dalle miserie morali di essa, a dispetto di quello che avrebbe potuto propiziare un rampante progresso economico ed un affiorare di generazioni di nuovi artisti, il clima culturale si era di fatto impregnato d’un intellettualismo greve, disordinato, dalla prosa illeggibile. Si voleva che ogni cosa avesse un senso “profondo”, si cercava di intessere ogni nuova figurazione pittorica di significati ora sociali, quasi che fosse d’obbligo un’estetica di massa, ora di intimismo torbido quando non miserabile. E si ostentava assoluto disinteresse per gli sforzi dei pittori di generazioni precedenti qualora questi non si fossero affrettati ad esibire dei passaporti politici in linea con le nuove istanze dominanti. A fronte di opere pittoriche le quali spesso erano solo commerciali e, se viste con un occhio davvero distante, a volte piuttosto grossolane e come disegno e come tecnica, fossero esse figurative o astratte, la retorica che si pensava essere stata l’esclusivo patrimonio del regime precedente prendeva nuove e inusitate forme proprio per descrivere e per promuovere questo nuovo tipo di arte ed i suoi interessati attori. La reazione a tutto questo di chi era stato fra i pionieri d’una avanguardia molto più vitale, disinteressata e sentita non era dunque per nulla ingiustificata.
Le lettere a Boris De Rachewilz contengono però altre notizie che rassicurano, posto che ciò fosse necessario, anche chi ammira l’Evola pittore e per avventura non ne conosce la multiforme opera di scrittore e filosofo o non se ne cura troppo. Infatti da alcuni testi delle brevi missive sappiamo che il Romano domanda al suo corrispondente se questi non abbia ancora delle foto delle opere vendute all’esposizione che si tenne nella capitale e ciò non per curare un catalogo o qualche memoria ma per il più semplice obiettivo di dipingere delle copie in modo di riguarnire le pareti rimaste disadorne dell’appartamento nel quale Evola, grande invalido di guerra, doveva passare tutte le sue giornate. Obiettivo spiegato a chiare lettere; egli anche per variare lo scorrere del tempo avrebbe alternato l’attività di scrittore, con il diletto dei pennelli e delle tele. Usati per rifare i quadri andati venduti, e qua e là per nuove invenzioni. E così fu. Ricevute le fotografie dal professore, Evola per qualche anno ancora, plausibilmente fin quasi al 1970, si rimise a dipingere. Quadri tramite i quali noi rivediamo opere del fiammante tempo dell’avanguardia che si erano disperse, nuovi quadri astratti, e dei nudi femminili. Addirittura veniamo a sapere dalle memorie alquanto frammentarie di Scheiwiller, l’editore milanese di “Cavalcare la tigre” che il filosofo si diede pure a ridisegnare una composizione a china datata al lontano e scintillante 1919 che, sottratta da qualcuno, avrebbe dovuto ornare la raccolta di poesie giovanili Raaga Blanda. Evola dunque continuò ad essere pittore, e lo fu però con l’assoluto distacco di chi nulla più si attende come compenso dell’azione. Una soluzione che sublima quasi in termini di eroico Oriente il ritrovato diletto d’altri tempi.
Quando, voltandosi sulla via percorsa, si misura la distanza effettuata, la molta fatica profusa nel cammino si finisce per abbracciarla con un solo colpo d’occhio. Tutto riappare semplificato e ridotto, vaporato all’essenza. Non poteva non essere così anche per la fortunata parentesi pittorica a cavallo del primo conflitto. Nell’opera “Il cammino del cinabro”, il testo con il quale Evola intende dare ai suoi lettori, divenuti ormai dei fedeli lettori, un orientamento preciso lungo la sua cospicua attività e teorica e politica, non mancano infatti degli accenni altrettanto puntuali ed efficaci per poter intendere la ragione ultima che portò un giovane allievo della scuola per ingegneri a Roma a cimentarsi, e ciò con uno spessore di argomenti davvero inusitato, pure nell’arte pittorica, assecondando un’originaria inclinazione manifestatasi fin dalla puerizia per il disegno.
Se il quaderno “Arte astratta” procedeva serrato nelle pagine con ragionamenti estetici tramite i quali si dimostrava essere quest’ultima arte la possibilità di figurare esplicitamente ciò che è illogico ovvero antirazionale e inesprimibile e invisibile, le poche linee dedicate alla pittura nel “Cammino del cinabro” descrivono l’arte astratta in termini che ora appaiono freddi, distanti, e però ulteriormente chiarificatori. Come, appunto, si legge in una pagina delle prime:
(dell’arte astratta), a quel tempo, la sua formula era un uso dei puri mezzi espressivi staccati da ogni necessità e da ogni contenutismo, per evocare o attestare uno stato di libertà assoluta.
Espressione pura distaccata da qualsiasi contenuto inteso come oggetto da rappresentare e, più tenuemente, da qualsivoglia sentimento. Pura volontà di esprimere usando una tecnica pittorica senza porsi alcun fine eccettuato quello di manifestare una volontà in sé. Una specie di trasfusione in colori e linee sulla tela della musica, secondo la ben nota interpretazione di Arthur Schopenhauer, quale pura descrizione del moto del Wille cosmico.
Più oltre, sulle pagine del testo, scrive il filosofo romano:
dell’insieme (e intesa qui è ancora l’arte astratta) un tratto caratteristico era però il risalto da me dato ad una estraneità spirituale impassibile e dominatrice più che estatica che per sua espressione precipua avrebbe dovuto avere l’agitazione arbitraria delle forme.
È, questo, un passaggio molto suggestivo: le forme sono un sostantivo plurale che comprende gli arzigogoli di linee disposte illogicamente, (si confronti ancora una volta una delle pagine finali del quaderno Arte astratta del 1920 quando è scritto… ritmi illogici e arbitrari di linee, colori, suoni e segni (…) che nulla vogliono dire…) le macchie tentacolari di colore, i baleni guizzanti che sembrano saettare dai lati in alcuni quadri, disposti sulle tele dal pennello condotto da una mente fredda e impassibile che osserva il moto del Wille, del “volere” di cui si fa pure agente. Una sorta di istante nel quale l’azione, pittorica, e la contemplazione estranea si uniscono. È utile anche qui sottolineare la singolare prossimità linguistica dei termini “estetica” ed “estatica”. L’estraneità spirituale impassibile e dominatrice cui allude Evola è forse la linea di vetta dell’estetica la quale con la partecipazione del sentimento diviene e forse decade a visione solo “estatica”.
Più oltre scrive il filosofo romano delucidando il vero fine ch’egli attribuiva a questa sua attività pittorica:
…Il distacco da ogni contenuto dei mezzi espressivi e il loro uso secondo le infinite possibilità astratte era la tecnica da me indicata per suscitare, attraverso l’arte, presentimenti di uno stato superiore dell’essere, che in quel mio primo scritto associavo perfino al “breve, raro balenare attraverso la grande morte, la grande realtà notturna della corruzione e della malattia”.
Arte in guisa di estetica attiva e pratica che si avvia verso domini superiori, spirituali. E, a coronamento di questi appunti sull’esperienza conclusa, arriva la riduzione assoluta e retrospettiva, il voltarsi a ritroso sulla via percorsa che restituisce il tutto in forma chiarificata e semplificata:
Dei miei quadri, diversi recavano il titolo di “paesaggio interiore” con l’indicazione di una data ora del giorno. Altri erano pure composizioni lineari o cromatiche. Un gruppo minore risentiva ancora del “contenutismo” futurista.
Dunque il ricordo algido e disinfettato di qualsiasi nostalgia dei famosi “paesaggi interiori”. Di poi i disegni a linee in china che rappresentano le composizioni puramente lineari. Un esempio di tali composizioni lo si ha con l’ultima immagine fra le quattro presenti su Arte astratta del 1920. Avviene inoltre l’unione di linearità e cromatismo nei quadri a fredda struttura reticolare dei quali è di nuovo un esempio il secondo quadro, titolato pure esso “paesaggio interiore/ore 16”, che appare in bianco e nero sul quaderno Arte astratta. Il gruppo minore che risente del contenutismo futurista è egregiamente rappresentato da un quadro che ha per titolo “fiori” e comprende le opere di Evola più datate e generalmente anteriori all’anno del folgorante quaderno teorico.
È indicativa, in quest’ultimo passo scelto dal “Cammino del cinabro”, la gelida descrizione ridotta all’essenza estetica di tutta un’opera compiuta e certo cospicua. E sono i termini riassuntivi esatti per chi volesse tentare di procedere per suo conto lungo questa via estetica e spirituale.
Poscritto
Arte astratta resta sempre il testo cardine per comprendere quanto più possibile l’attività pittorica del filosofo romano. Una bella ristampa dall’antico originale del quaderno del 1920 è stata effettuata solo qualche tempo addietro dalle Edizioni di Ar di Padova. Questa edizione della minuscola opera di Evola, dato che essa consta di poco più di 10 pagine cui aggiungere quattro suggestive illustrazioni e dieci poemetti, ha il pregio di avvolgersi entro la copertina a colori disegnata dall’Autore stesso. La prima di coperta essendo una composizione di macchie verdi dalla sagoma irregolare, quasi la cartografia d’un lontano arcipelago di isole su di un mare bianco, con il titolo i cui caratteri, a lettere rosse, appaiono pure disegnati a mano e sembrano essere i medesimi che affiorano su altri quadri di Evola. Il quale plausibilmente doveva o aver trovato un normografo di stile razionale o esserselo costruito di legno o cartone. D’un bel blu notturno sono la quarta di coperta e il dorso del volumetto.
Questo volumetto è passato, come non dovrebbe essere così di consueto, del tutto o quasi inosservato anche sulla stampa che volentieri tratta dell’opera del filosofo romano. Addirittura la nuova edizione del “Cammino del cinabro” che pure acclude alcune buone pagine di approfondimento sulla parentesi pittorica e poetica di Evola lo ignora. E non se ne comprende il motivo dato che questa ristampa padovana la si è trovata sui cataloghi dei fondi documentari delle Accademie di belle arti in quel di Zurigo e Vienna, esemplari ve ne sono al Preussischer Kulturbesitz, al Kunsthistorisches Institut di Monaco di Baviera, e presso le biblioteche universitarie di Brema, Hannover, Padova etc.
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