A Carnevale il fritto vale

La tradizione ci riporta addirittura agli antichi Romani

E' il periodo dei rustici dolci chiamati, a seconda della regione, "frottole", "chiacchiere", "cenci"...

di Marina Cepeda Fuentes

La tradizione ci riporta addirittura agli antichi  Romani

Anche il Carnevale, come il Natale, ha i suoi dolci tipici e  uno dei più diffusi sembrerebbe nato   per rafforzare il noto proverbio “a Carnevale ogni scherzo vale”,  giacché si  tratta semplicemente di sottilissime fettucce  di  pasta fritta cosparse  di zucchero a velo: una vera e propria  burla  gastronomica perché  se  ne possono consumare decine senza mai saziarsi,  tant’è vero  che  in molte regioni italiane ricevono nomi  che  rammentano l’inganno come “chiacchiere”, “bugie”, “frottole”, “farseu”. 

Queste  strisce di  sfoglia  di farina addolcita, che tuttora vengono preparati per i bambini di casa nelle cucine di molte famiglie, hanno a volte il   profumo  di limone, vaniglia,  grappa o liquore e  vengono fritte nello strutto  bollente, nell’olio d’oliva oppure nel burro, secondo i luoghi, prendendo forme più o meno accartocciate e nomi diversi: “frappe”  nel Lazio, “sfrappole” in Emilia, “crostoli” nel Veneto, “galani” a  Venezia, “lattughe”  a Mantova  o “donzelline” in  alcune zone  della  Toscana. 

Ma fra i toscani il nome più diffuso è quello di “cenci” perché rammentano gli scampoli di tessuti che si vendevano nelle fiere. D’altronde di  nastri di pasta dolce fritta vi sono tracce nelle  cronache toscane  del XIII secolo.

Comunque sia, il loro più lontano  antenato sarebbe  il “laganum” degli antichi Romani, citato da Apicio: un impasto di semola  e  acqua tagliato a pezzetti che venivano fritti e poi  conditi col  miele, come d’altronde  è d’uso in Sicilia dove i “nastri”  carnevaleschi  vengono irrorati di miele e cosparsi di granellini di zucchero.

Ma i   dolci   di Carnevale   per   eccellenza dei siciliani,  immancabilmente  fritti, sono i  celebri cannoli  di sfoglia  croccante, riempiti  di ricotta arricchita con canditi e  pistacchi,  talmente saporiti  che una filastrocca popolare afferma: “Beddi cannola  di Carnalivari,/ megghin vuccuni a lu munnu un ci nn’è”, ovvero  “belli cannoli  di  Carnevale, miglior  boccone  al mondo  non  c’è”. La  tradizione  vuole che  si  mangino nel numero  di  dodici o  suoi multipli:  un’usanza che  ormai  pochi rispettano  data   l’enorme concentrazione  di calorie che contiene ogni cannolo.

 D’altronde  il Carnevale moderno  non  viene più considerata  quella  “festa del ventre”   del  passato, quando  erano  d’obbligo le   scorpacciate propiziatorie  d’abbondanza per la successiva  primavera.  Tuttavia, per la  gioia  del nostro palato, vi sono  reminiscenze di  quegli  arcaici riti di fecondità nei molti dolci regionali tuttora rimasti, la maggior  parte, appunto, rigorosamente fritti, come le varie  paste  dolci ripiene,  tipiche soprattutto dell'Emilia: dai “tortelli”  farciti di marmellata   di  amarene ai “tortellacci” imbottiti di  castagne; dai “ravioloni” con zucca e canditi ai “tortelloni” dolci del bolognese.

   Della  lunga serie dei grassi dolciumi carnascialeschi fanno  parte anche  le frittelle che, fin  dal  XVI secolo, a Venezia vengono chiamate “fritole” e  si ritengono  “boccon da poereti e anca da siori”, cioè  “boccone da  poveretti e anche da signori”. La ricetta  tradizionale,  come illustra il  celebre  cuoco del Settecento  Bartolomeo  Scappi, è ancora oggi la stessa,  a base di farina, zucchero, uvetta e profumo di liquore. 

In Umbria  le frittelle dolci di Carnevale sono di riso, mentre  nelle Marche  si preparano  col semolino; invece  a Napoli  si  chiamano “zeppole”, da non confondersi però con quelle natalizie, mentre in Sardegna il loro nome è “zippulas”.

Da non dimenticare  le “bignole” piemontesi, le “cartellate” pugliesi, le  frittelle di zucca del mantovano, i nordici “krapfen” e i “nigelan” altoatesini, i “bomboloni” fiorentini, le “fregnacce” di Acquapendente e molti altri dolci ancora, fino ad arrivare ai bignè di San Giuseppe ripieni di crema.

Nel Lazio  le “castagnole”,  a forma di palline dalle dimensioni di una  castagna,  possono prepararsi  anche  al forno perché siano più  leggere; come d’altronde  anche  i “berlingozzi” del Giovedì Grasso  toscano che è  detto Berlingaccio. 

Ma la corona di Re Carnevale, ingorda e seducente,  è rappresentata   dalla “cicerchiata”,  tipica  dell’ Abruzzo, Umbria e Molise:  un regale  ciambellone di palline fritte di  pasta dolce   che sono  tenute insieme dal miele e infine ornate  con coloratissimi canditi e confetti.

Le palline per la “cicerchiata” si friggono anche nel Lazio, specialmente ad Anguillara. La sua ricetta, in versi romaneschi, si trova nel volume “Sonetti dorci” di Maria Teresa Costantini:

 

Ce stanno certi dorci che se fanno

la maggior parte solo a Carnovale,

però so buoni puro tutto l'anno;

So quasi tutti fritti, è naturale:

bombe, ciammelle, struffoli e bignè,

ravioli dorci e tonne castagnole;

Ce n'è n particolare uno-

tre etti di farina co du ova

du cucchiari de zucchero e ojo poco-

che va fritto a cecettini, e si uno vuole,

lo ripassa ner miele ch'è sur foco.

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