Lessico famigliare

Questionari e confessioni di Proust e Michelstaedter

di Giovanni Sessa

Questionari e confessioni di Proust e Michelstaedter

La copertina del libro

Il 17 Ottobre 1910, con un colpo di pistola alla tempia, si toglieva tragicamente la vita, a soli ventitre anni, Carlo Michelstaedter, una delle voci più autentiche dell’avanguardia culturale europea. A cento anni dalla sua prematura scomparsa si sono tenuti convegni, mostre e manifestazioni culturali al fine di celebrarne degnamente la memoria. Le sue opere sono ormai tradotte in tutte le lingue del mondo e discusse dagli studiosi. Centro delle più significative manifestazioni organizzate per il centenario della morte, è stata la città di Gorizia, dove egli nacque.

    Ad essa, alla sua vivace vita intellettuale, alla comunità ebraica isontina, rinviava il volume, Le confessioni e la turba goriziana, edito da Aragno nel 2010 per la cura di Alberto Cavaglion e Angela Michelis. Il testo raccoglieva scritti in gran parte inediti, conservati negli archivi della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano. Il fondo in questione fu donato al Centro milanese da Aldo Gandus, marito di Anny Michelstaedter, figlia di Pia e Giorgio, cugini del filosofo, alla metà degli anni Settanta. In mezzo a documenti settecenteschi, attestanti la genialità dei Michelstaedter nel corso dei secoli, ci si  accorse della presenza in copia delle risposte fornite da Carlo e dai suoi congiunti a un questionario, fatto girare tra alcune eminenti famiglie ebraiche del periodo, a Gorizia e a Firenze, città d’elezione del filosofo della persuasione. Un gioco erudito quello del questionario, piuttosto consueto nelle famiglie colte della borghesia ebraica italiana dei primi anni del Novecento, la cui lettura consente di cogliere i rapporti che legavano le une alle altre, e il rilevante spessore intellettuale di Umberto Cassuto, di Rafael Della Pergola e, naturalmente, di Carlo Michelstaedter.

      L’editore Aragno ha messo da poco a disposizione dei lettori, un nuovo libro in argomento, Lessico famigliare. Questionari e confessioni (a cura di A. Cavaglion e A. Michelis, Torino 2014, euro 7,00), nel quale oltre ai testi de Le Confessioni, compaiono le risposte fornite da Marcel Proust al questionario. Tale gioco erudito di società, nei primi anni del XX secolo, coinvolse l’intellettualità di mezza Europa: francese, inglese, tedesca. Risposero  il musicista Luigi Nono e in anni a noi più vicini, solo per fare un altro nome, il giornalista Bernard Pivot. Nell’Ottocento alle domande si sottopose financo il giovane Marx.

   A Proust, la confessione fu proposta, intorno al 1885, quando aveva 15 anni, da una coetanea con la quale si intratteneva nei giardini agli Champs Elysées, Antoinette Faure, figlia di Felix Faure, deputato e futuro Presidente della Repubblica. I quesiti erano posti in inglese. La cosa colpì e divertì l’autore della Recherche al punto che, superati i vent’anni, se ne rammentò, riformulando i quesiti e dando ai fogli un nuova titolazione: Marcel Proust par lui-même (Proust visto da Proust). Le risposte di Proust e di Michelstaedtere sono connotate da un denominatore comune: l’impossibilità di ogni definizione della felicità. Lo scrittore ha: “…paura di distruggere la felicità dicendola. Michelstaedter teme che l’intensità dei sentimenti vada disgiunta dalla facoltà di esprimerli” (p. 11). In ogni caso i due  presentano destini esistenziali capovolti. Il francese adolescente è all’inizio della sua ascesa intellettuale, mentre il goriziano è alla vigilia della  tragica fine.

  Per quanto attiene al filosofo della persuasione, l’insieme del materiale fu raccolto da Silvio Michelstaedter, che Cavaglion ne Le Confessioni descrive quale uomo estroso, cultore di interessi cabalistici, ai quali cercò di legare anche la filosofia dell’illustre cugino, nel saggio L’adepto di una razionalità occulta: C. Michelstaedter nella testimonianza di Elia Giacomo Silvio Michelstaedter. Prospettiva esegetica che dai critici è stata a lungo misconosciuta, ma che potrebbe rivelarsi strumento imprescindibile per comprendere i nodi irrisolti del pensiero di Carlo, almeno nei confronti della tradizione d’origine. L’importanza del questionario sta nell’essere una confessione immediata, una silloge di parole in libertà inerente questioni disparate. Della qual cosa, riportando le sole risposte del filosofo, si era accorto, fin dagli anni Settanta, Sergio Campailla che, in A ferri corti con la vita, se ne servì per ricostruire organicamente la psicologia del giovane suicida. Da una lettera alla sorella Paula del 3 febbraio 1906, apprendiamo che il giovane aveva preso molto sul serio il gioco di società, tanto da interpellare sulle sue lontane origini, un illustre docente, il Rajna. Questi aveva cennato ai suoi studenti fiorentini dei joca monacorum,  raccolte di quesiti alla quali, per divertimento, si doveva rispondere. I jocaerano posti sotto forma di enigma, di indovinello.

     Crediamo che le risposte fornite, alcune serie, altre facete, ma rivelatrici della personalità dell’interpellato, vadano lette tenendo conto che, sullo sfondo di esse, deve essere posto il rapporto con la tradizione ebraica. In essa, alcuni degli interpellati pienamente si riconoscono, ad esempio Umberto Cassuto, insigne biblista, che fornì le risposte in ebraico, mostrando una conoscenza profonda della tradizione talmudica e, al medesimo tempo, una significativa vena ironica; o Rafael Della Pergola, che le scrive per metà in ebraico e che fu rabbino a Gorizia, trasferendovisi da Firenze, seguendo il percorso inverso a quello di Carlo.

      Dalle risposte di quest’ultimo si evicono ad un tempo il distacco irrimediabile rispetto alla tradizione di provenienza, maturato sotto la spinta “erotica” del pensiero greco, e confermata nelle lettere di quegli anni, connotate da toni polemici nei confronti dell’ambiente studentesco talmudico e nei confronti degli “ortodossi”, quanto dal rifiuto delle convenzioni sociali borghesi. Da esse si evince la sua estraneità al mondo dell’utile, il rifiuto delle costruzioni rettoriche, della falsa persuasione. Nella confessione, il filosofo è alla ricerca di un’integrazione autentica e persuasa del proprio essere, che non poteva trovare soluzione nella tradizione propria al suo mondo famigliare. Egli visse profondamente in sé la spinta daimonica, che lo indusse a guardar ad occhi aperti il reale, servendosi della strumentazione speculativa rintracciata nella sapienza presocratica.

    Angela Michelis ricorda come, in Michelstaedter, teoresi e arte, si integrino una nell’altra, supreme vie di conoscenza: “Avere uno sguardo estetico sul mondo significa rigenerarlo a partire dalla volontà di concretezza artistica e di dignità filosofica, dalla ricerca incessante delle ragioni umane del bello” (p. 56). Con ciò Michelstaedter ci pare riproporre, in senso eminente, il tragico,che rende possibile: “…ritrovare il ritmo dell’intensità”(p. 23, da F. Gualdoni, Diario tedesco, in “Espressionisti”, Mazzotta, Milano 1984, p. 17). E’, quindi, sicuramente vero che nell’opera pittorica, in particolare negli schizzi e nelle caricature del goriziano, sono presenti elementi propri all’estetica dell’espressionismo, l’iperbolica tensione all’immagine irraggiungibile, alla persuasione, che si accompagna però, per dirla con Evola, a una condizione interiore in cui: “Il reale è vissuto in uno stato in cui non c’è soggetto dell’esperienza né oggetto che venga sperimentato, che sta nel senso di assoluta presenza” (J. Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, p. 113).

    La dicotomia soggetto-oggetto non solo è superata, ma da essa emerge una radicale denudazione del reale, una “riduzione” fenomenologica, per riferirci a Husserl, che lascia esser le-cose-così-come-sono. Almeno in embrione, in Michelstaedter scorgiamo l’esigenza di una Neue Sachlichkeit, di una Nuova Oggettività, alla quale oggi è più che mai necessario corrispondere, per immettersi lungo l’inconclusa e singolare (ognuno è il primo e l’ultimo) via di liberazione, indicata un secolo fa dal giovane pensatore.

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