Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Uno dei primissimi planatori Wenk; si vede la gondola appesa all’ala e pare scorgersi un abbozzo di piano equilibratore.
I velivoli Geest sono dunque un secondo effettivo esempio di idea costruttiva tratta in via diretta dalla biotecnica del volo. Esempio che ha seguito un iter simile a quello che ha portato lo Etrich a brevettare la sua Taube, idea, qui, tratta dal volo nel mondo della flora. In entrambi i casi, quello del medico berlinese e quello dell’industriale austriaco, una bellissima pagina di storia aeronautica germanica, un esempio di intuitiva e però attenta assimilazione tecnica dalle forme armoniose della natura.
Durante la guerra mondiale, sul fronte russo uno studente di scienze naturali e matematica del Baden, Friedrich Wenk, serve come metereologo nell’arma aerea germanica dove, negli intervalli fra i turni di impiego ha modo di continuare la costruzione di modelli volanti. Nel 1914 Wenk aveva costruito una sorta di velivolo planatore ad ala singola sul quale aveva pure tentato inutilmente di staccarsi dal suolo scendendo di corsa il declivio d’una collina. Il modello che, a detta d’un compagno di caserma, campeggiava appeso nella sua stazione di osservazione assomigliava ad un gabbiano. Allo stesso che lo aveva notato, Wenk diceva che una volta finita la guerra lo avrebbe costruito su scala maggiore traducendolo in un effettivo aeroplano. E così fu fino dal 1919. In quell’anno difatti Wenk deposita il suo brevetto per un velivolo ad ala di gabbiano che a differenza della patente del dottor Geest, ancora piuttosto macchinosa, ha il vantaggio di essere semplice e geometrico. A tal punto che riportata la pianta alare del disegno allegato all’esplicazione del brevetto su cartoncino o carta di buona fibra, ritagliata e atteggiata secondo la M allargata classica della siluetta frontale del gabbiano, il piccolo velivolo di carta, una volta centrato correttamente plana come un vero aliante in miniatura. Alla patente segue la costruzione di una serie di planatori senza coda i quali applicano i principi del brevetto. Tale brevetto peraltro è puramente aerodinamico e non riguarda la struttura costruttiva delle ali. Di voli, ovvero di brevi planate scendendo da dei declivi non è data notizia, restano a solo documento, per quanto si è potuto rintracciare nelle riviste di quel tempo lontano, delle fotografie di tali macchine raffinate e rudimentali e tutte assai snelle, per il pronunciato allungamento alare. Una brevissima descrizione dalle immagini può aiutare il lettore a intuirne per quanto possibile le forme, avendo presente che le stesse fotografie sono tutt’altro che dettagliate, e mostrano solo un paio di prospettive.
Caratteristica di questi planatori è dunque l’ala, geometrica e poligonale, costituita d’una parte centrale rettilinea in pianta e dal diedro vigoroso se vista in fronte. Il profilo pare essere quello classico del tempo ovvero del tipo molto sottile. Alle due estremità, tagliate non secondo una traccia parallela alla direzione di volo, ovvero all’asse di simmetria, ma leggermente convergenti, in ragione dello stretto angolo di dieci gradi con l’asse suddetto, verso un punto posto oltre la prora del velivolo ci sono dei prolungamenti delle ali che visti dall’alto sono rivolti all’indietro secondo un angolo che, ad occhio, può valutarsi dai trenta ai quaranta gradi circa. Ovvero, usando di un bel termine mutuato dall’arte venatoria: “falcati”, e senza un raccordo arrotondato ma spezzati. Questi due prolungamenti dell’ala, in tutto assimilabili alla regione delle lunghe piume remiganti nei gabbiani o nelle sterne, svolgono l’ufficio che nei velivoli ad architettura classica è svolto dal piano equilibratore di coda riguardo al rendere la planata stabile rispetto l’asse trasversale, detto anche dal gergo marinaro, asse di beccheggio. Essi rendono però il velivolo passabilmente stabile anche riguardo l’asse verticale della macchina, detto asse d’imbardata, che è poi l’asse ruotando intorno il quale si muta la rotta di volo. Visti di fronte, questi planatori di Wenk mostrano la classica M latina assai appiattita dei gabbiani e però corretta da un particolare accorgimento già specificato in alcune versioni del brevetto: mentre i volatori viventi spesso, pur se non sempre, durante le planate atteggiano le estremità alari più in basso o al medesimo livello di dove le ali si attaccano al corpo, nelle macchine Wenk le estremità alari devono sì ricadere in basso ma non troppo, ovvero devono situare la linea che idealmente le congiunge, osservando il velivolo di fronte, più in alto del punto centrale dell’ala intera che poi si scinde nella costruzione reale nei due punti d’innesto delle semiali alla fusoliera.
Per completare la descrizione sommaria di questi aerei va aggiunto che essi non avevano, come spesso avveniva in quegli anni del volo a vela dei pionieri, la fusoliera che costituisse un tutto con l’ala, ma da questa era completamente separata ed assumeva la forma di una piccola gondola dalla quale una serie di travi si dipartivano a sostenere come un tetto lunghissimo e stretto la superficie che deve render atta al volo la strana macchina. Da una coppia di fotografie sembra si possa scorgere in coda alla cortissima gondola che fa da fusoliera una sorta di piano equilibratore senza impennaggio verticale. Il fatto può essere certo, ma le uniche due foto che ritraggono in volo un aliante Wenk successivo, il Weltensegler Feldberg del 1920, sempre di questa famiglia di aerei senza coda non lascia ambiguità alcuna: il primo brevetto per un’ala di gabbiano fu rispettato alla lettera.
lar1: uno dei primissimi planatori Wenk; si vede la gondola appesa all’ala e pare scorgersi un abbozzo di piano equilibratore. Ma la qualità della fotografia non lascia intravedere dettagli di forme più significativi. Per contro colpisce la struttura della macchina che non sembra robusta.
Non si conoscono prove di volo di questi bellissimi veleggiatori se non l’unica, magnifica e ascesa su di una corrente atmosferica dell’aliante Feldberg che si concluse con le ali spezzate e la tragica caduta che non risparmiò la vita del coraggioso pilota. Cause di questo gravissimo incidente se ne trovarono due e non vi è ragione di dubitarne: la struttura della macchina era leggerissima e quindi poco robusta nel caso la macchina non si trovasse nel campo delle velocità assai ridotte usuali per i planatori di quegli anni, i cui voli si limitavano a lunghe slittate di centinaia di metri sospesi poco sopra il suolo e non si era ancora avuta l’esperienza di voli in ascesa su correnti d’aria riscaldata o su venti deviati da pendii. Fu proprio il Feldberg il primissimo aliante a sperimentare, nell’unico volo finito tragicamente, l’ascesa sulla corrente causata da un vento che spirando parallelo ad una pianura viene sul suo cammino deviato dall’ostacolo d’una collina e sfoga il suo potenziale d’energia verso l’alto. Un effetto simile a quello compiuto dal vento e qui descritto lo si può esperimentare osservando il vapore che sfuggendo di lato da una fessura tra coperchio e pentola trovi l’ostacolo in una pentola più grande o in un muro: si vedrà la corrente del vapore deviare e spirare con vigore per qualche tratto verso l’alto prima di disperdersi. Il pilota del Feldberg, così è detto da un Autore che fu il giovanissimo testimone di quel volo e dipoi un esperto volovelista, salendo rapidamente in quota per effetto della corrente d’aria ascendente tirava il comando che abbassava le estremità alari, per propiziare una picchiata controllata in modo da mettere la prua in rotta di discesa, ma una volta fatto ciò la macchina prendeva subito velocità. Il pilota cercava allora di richiamare verso l’alto le estremità alari in modo da puntare la prua del velivolo verso l’ascesa e così rallentare la velocità di volo. Il comando di richiamata era però affidato solo a delle molle di ritorno e non era fisso con la barra di comando. E con l’aumento della velocità le molle non riuscivano a vincere la pressione esercitata dall’aria. L’aliante così oltrepassava il limite consentitogli dalla fragile e leggerissima costruzione, la struttura cedeva, le ali si spezzavano ed il bellissimo albatro artificiale precipitava con il suo pilota. Perché il lettore possa ricostruirsi esattamente la meccanica dell’avvenimento principale, quello della richiamata resa impossibile dalla pressione dell’aria, immagini di viaggiare in automobile con il finestrino aperto e ponga un ventaglio dispiegato al vento di corsa. Fino a che la velocità è modesta elevare ed abbassare il ventaglio nella corrente è possibile. Non appena però la velocità aumenta anche di poco, il ventaglio aperto lo si può tenere solo di coltello rispetto all’aria, né si riesce più a metterlo in obliquo rispetto la corrente.
lar2: il Weltensegler inoltratosi entro una corrente ascensionale sale vertiginosamente di quota. Dopo pochi istanti il pilota, forse non sentendosi del tutto sicuro, dà il comando di picchiata per iniziare una planata causando l’aumento di velocità non più controllabile che si rivela fatale per la fragile struttura della macchina.
Il tragico incidente del Feldberg non era dovuto ad errori del progetto aerodinamico: le foto dell’ascesa mostrano la macchina in perfetto equilibrio sui tre assi di volo. Furono la fragilità della struttura e soprattutto l’inefficacia del comando a causare il disastro aviatorio. L’aliante era stato costruito dalla ditta “Weltensegler”, seguendo l’applicazione del brevetto Wenk e quest’ultimo però riguardava, come sopra affermato, solo il dominio aerodinamico e non quello costruttivo. Questa la ragione per la quale si ha la notizia di un nuovo aliante del medesimo tipo, quindi sempre con siluetta “a gabbiano”, di un anno e qualcosa successivo: questa volta doveva essere intervenuto a sovrintendere la costruzione un avveduto ingegnere perché la macchina non aveva più la struttura filiforme e utopica della precedente, era un vero aliante con i comandi canonici e comandati da doppio filo metallico ed ala a longheroni con doppia controventatura. Spariva la gondola sospesa sotto l’ala ma quest’ultima si innestava su di una piccola vera fusoliera dalla quale il pilota sporgeva e poteva vedere la parte superiore della superficie alare. In pratica si trattava di un veleggiatore senza coda di costruzione a regola d’arte. Nominato come Baden Baden Stolz il velivolo compi solo alcune planate mostrando un buon comportamento di volo. Era il 1922. Alla macchina purtroppo non si dava seguito, plausibilmente per motivi finanziari. E la via del nascente volovelismo era più rapida e, almeno in prima apparenza, non così complicata se si aggirava la necessità di costruire ali a diedro ben rilevato, con estremità falcate e rivolte in basso, ovvero a “catedro”, e senza coda. L’aeroplano classico si trasformava in aliante semplicemente tenendo la medesima architettura, usando nuovi profili adatti al volo veleggiato e dando un vigorosissimo allungamento all’ala, potendosi con quest’ultima se montata in alto, sopra la fusoliera o uscente dalla parte superiore di essa, rinunciare al diedro alare. E questo, importante per la stabilità ai moti di rollio, venendo dato in volo dalla leggerissima torsione verso l’alto dei longheroni alari sollecitati dal peso centrale della fusoliera. In pratica, come si può ben immaginare una semplificazione costruttiva non da poco.
lar3: prove al traino per l’aliante Baden Baden Stolz. Ai comandi, entro la snella gondola è il progettista e pilota Fritz Stamer. Si vede ora come la costruzione si sia evoluta: l’ala non esibisce più quella struttura a travi esterni vista sullo sfortunato Feldberg ma ha profilo più spesso e longherone interno con centine. Vi è inoltre la controventatura di irrobustimento a doppio trave.
lar4: vista di coda dello stilizzato gabbiano.
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