Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Per favore, non offendiamo. Chiamare Renzi granduca è quasi altrettanto fuori luogo che definirlo fiorentino. Per lui a tal riguardo vanno benissimo i celebri versi di Dante : quanto sarebbe stato meglio avere il confine al Galluzzo e a Trespiano che “ sostener lo puzzo del villan d’Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l’occhio aguzzo”. Non c’è che da sostituire uno dei due toponimi con Rignano e il gioco è fatto; e quanto a “baratterie” non c’è dubbio che il Renzino non lo batta nessuno: astuto come ogni buon villano che si rispetti, basta vedere come ha buggerato tutti quanti gli pseudo marpioni di ogni latitudine dello sgangherato quadro politico, dove buona parte del partito nato per seppellire la prima repubblica non ha trovato di meglio che votare uno scialbo e inquietante fanone della balena bianca come nuovo inquino del Quirinale. A volte ritornano, verrebbe da dire, se non fosse per il sospetto che in realtà non se ne siano mai andati e che il virus democristiano si sia semplicemente metamorfizzato e neppure poi più di tanto. Resta da capire cosa di guadagni il “Rogantin di Rignano” nell’ aver ridato corpo a questo ectoplasma affossatore di referendum: sembra infatti che la specialità di Mattarella sia quella di affossare, e chissà che anche il nostro baldo premier non debba prima o poi farne le spese …
E’ possibile collegare, forse in modo un po’ azzardato, gli eventi di questi giorni con quelli di 150 anni fa che proprio in riva d’Arno ci si appressa a ricordare con tanto di pifferi e tamburi? Il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, che vedrà oggi in Palazzo Vecchio alle 11,30 l’inaugurazione di una serie eventi: un vero e proprio “taglio del nastro” che ricorderà l’ingresso di un Vittorio Emanuele II, ancora tronfio delle corone fortunosamente e sanguinosamente (soprattutto per il sangue dei meridionali che ancora si continuava disinvoltamente a versare) guadagnate tra il 1859 e il 1861, ma abbastanza turbato dai moti della sua Torino che non aveva gradito lo schiaffo di un trasferimento dovuto essenzialmente ai soliti equilibrismi diplomatici, al patto con Napoleone III che avrebbe dovuto salvaguardare quanto restava dello stato pontificio e che naturalmente il regno d’Italia fu prontissimo a tradire al momento opportuno, inaugurando la “regia” tradizione per cui la parola data è solo una mera questione di convenienza (come si dimostrerà nel 1915 e nel 1943, questa volta però con conseguenze quanto mai infauste anche per casa Savoia e soprattutto per tuta l’Italia)). Torino non aveva “salutato” gioiosamente la partenza della corte: già nel settembre del 1864 c’erano stati scontri e tumulti con 26 morti e 66 feriti. Una bazzecola, tutto sommato: le truppe sabaude sapevano anche fare ben di meglio, come dimostreranno soprattutto nel 1898 agli ordini di Bava Beccaris: 80 morti e 450 feriti secondo le fonti “ufficiali” ma secondo altre fonti i morti pare fossero più di 300 o addirittura 500 : nella maggior parte dei casi, gente inerme in fila per il pane.
“Firenze in procinto di farsi capitale - aveva scritto Gino Capponi alla fine del 1864 - è quasi come una fanciulla che senza passione stia per uscire dallo stato verginale”, mentre Bettino Ricasoli così scriveva a Ubaldino Peruzzi: “ Parmi per questa città una gran sventura”. Davvero due magnifici esempi di ipocrisia, da parte di due personaggi – sopratutto il primo – che avevano dato un contributo determinante alla fine di quel granducato che era stato per secoli faro di civiltà in Europa: ancora durante il regno di Leopoldo II Firenze aveva avuto un respiro europeo che non recuperò più, se non per brevi periodi durante il Novecento; ma allora difficilmente sarà grazie alle istituzioni, ma quasi sempre malgrado e contro di esse.
Del resto, i timori e i disgusti dei fiorentini non erano affatto ingiustificati: oltre alla corte sabauda era in arrivo una torma barbarica e famelica di burocrati e funzionari: circa 30000 persone, considerando ovviamente familiari, domestici e codazzi vari.
La città – si dice – guadagnò moltissimo sul piano urbanistico. In realtà, fu la fine della città medievale, di cui oggi si ricercano faticosamente i frammenti: il caotico ma glorioso passato secolare doveva essere cancellato dall’ordinato e grigio presente borghese. E così fu, come la lapide, odiosissima, di piazza della Repubblica, ricorda al fiorentino e al turista, oggi forse altrettanto ignari di quello che è andato perduto: “l’antico centro della città, da secolare squallore a nuova vita restituito”. Un sanguinoso insulto alla città e alla sua gloriosa storia, ma anche un simbolo: il centro storico di Dante sostituito con una pessima copia della galleria di Milano …. All’architetto Giuseppe Poggi, brutta copia fiorentina del barone Haussmann che rivoluzionò Parigi ancor più dei sanculotti, più che monumenti e retrospettive starebbe bene una damnatio memoriae .
Ecco, forse il punto di contatto è proprio questo. Il “rottamatore”, come amava definirsi, non ha certo un passato glorioso da cancellare: a quello hanno già ampiamente pensato i suoi predecessori, di tutti gli indirizzi e tendenze possibili e immaginabili: i voraci governi demo-socialisti, le rapaci amministrazioni rosse,i governi di centro destra capaci di distinguersi solo per la fame arretrata, lo squallore delle figure – anzi dei figuri, perfettamente speculari ai loro colleghi ed emuli di centro sinistra. Se Renzi avesse davvero spazzato via tutto questo, se stesse lavorando per restituire un futuro all’Italia e alla nuove generazioni in particolare, non potremmo che essergli grati ed ergergli un monumento in Santa Croce, accanto a quello di Dante. Ma se mai il nostro baldo premier dovrà avere un monumento, il luogo più idoneo sarebbero senz’altro i viali delle Cascine, rinomata zona di “passeggiatrici” e “passeggiatori”. Quello che Renzi in realtà sta spazzando via è quel residuo di dignità nazionale, quel poco energia imprenditoriale ed economica, quel minimo di società civile che ancora sopravviveva; senza contare, per l’appunto, la prona sudditanza agli eurocrati di Bruxelles e dintorni. Mille, diecimila volte meglio il Granduca (quello vero, s’intende) e l’Imperatore, allora. E in questo, l’elezione di una figura – o forse di un figuro- che più vecchio non si potrebbe, degnissimo successore, anche se anagraficamente più giovane, di Napolitano, non fa che chiudere il cerchio in maniera perfettamente gattopardesca: tutto deve cambiare perche tutto resti come è sempre stato.
Proprio quel processo iniziato nel 1860- 61 non per rigenerare una nazione che non aveva affatto bisogno di essere “rigenerata”, che avrebbe potuto trovare da sola la strada per giungere a una unificazione che non fosse brutale conquista di uno stato sugli altri, stravolgimento e cancellazione di secolari tradizioni e identità. “ Noi siamo i figli dei padri ammalati” cantava dolente proprio nel 1864 lo scapigliato Emilio Praga, riferendosi al fallimento – o all’inganno – della “generazione del risorgimento. E chissà cosa direbbe se potesse vedere i “nipoti” .
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